Appendice I - La Sila di Calabria

Vedete? Quell'avvicendarsi e di poggi e di gole, e di colline e di valli, e di monti e di pianure, a perdita d'occhio; quei pini, che svelti e maestosi qua intrecciano fra loro le copiosissime chiome, là curvano i loro coni fragorosi; quegli innumerevoli faggi e zappini, quegli abeti, che sulla corteccia hanno incisa, con la punta del pugnale, la selvaggia canzone del bandito calabrese; quel vasto mare di campi, ove l'erba s'incalza come un flutto agitato, ove armenti clamorosi di cavalli e di buoi nuotano coi pingui fianchi tra l'odoroso trifoglio, ove s'ergono bianchi e deliziosi casini; quella campagna illimitata, dove l'aria é fina e pura, e l'acqua fresca e cristallina, quella è la Sila, cui cento e cento villaggi fanno corona, la parte più pittoresca della pittoresca Calabria, quella che i forestieri numerosi traggono a visitare, che racchiude in se tante memorie antiche e moderne, nobili e generose, vili e feroci, che serba i nomi più poetici di luoghi, la grande foresta Bruzia dei Romani, la stessa che Dionigi D'Alicarnasso descrivendo dice piena di materia ad aedificationes et naves compingendas et ad alium quemois usum commodissima. Multa quippe abies procera ibi est, multa alnus, et pinguis picea, et cerrus, et pinus, et ramosa fagus et fraxini, labentium rivulorum humore abunde nutritae, et omni gena arbor consertis ramis densam speciem exhibens, umbro sumque faciens tota montem (1).

La stessa? Ah, no, di sicuro. Da quanto erano scritte queste parole, anzi da quando i Bruttii, sponte Romanis dediti, dimimidium SUAE REGIONIS MONTANAE IIS CONCESSERUNT quae Sila dicitur (2), ci corre dei secoli, ed i secoli mutano la faccia delle cose, e...

Adagio, troppa roba, adagio. Dunque i Bruzii cederono ai Romani metà della Sila? Bene. Noi non quistioniamo dell'esser o non essere la Sila abitata dai Bruzii, dell'essere, o non essere Cosenza il nucleo dei Bruzii no, sarebbe vano, riteniamo invece il fatto asseritoci da Dionigi, che è di gran momento.

I Bruzii verso l' anno 476 di Roma furono soggiogati dai Romani, e mentre perderono del tutto la loro indipendenza, furono obbligati a cedere ai vincitori metà della Sila. Fin d'allora quindi essa divenne proprietà dello Stato; e tale rimase sotto il dominio di Odoacre, Teodorico, i re Longobardi e i Normanni.

Anzi da questi ultimi se ne trovano concesse ampie estensioni dal duca Ruggiero nel 1099, dal Conte Ruggiero nel 1115, e dal Re Ruggiero nel 1149 al monastero di Altilia. È vero, che in tempi che la forza val meglio della ragione, ciò non potrebbe far maraviglia: ma non è men vero, che dall'essere concessa da quei Sovrani una parte si considerevole di territorio, e non un fondo particolare situato in questa regione, debba inferirsene, che eglino avessero della Sila il pieno dominio e la piena disponibilità.

(1) Antiquit. Rom. lib. XX. § V.
(2) Id. Ibid .

Se ciò non bastasse a dimostrare la demanialità di questa immensa foresta, che in un circuito di ottantotto miglia contiene circa centomila ettari di terreno, si potrebbe aggiungere le concessioni, ancor più importanti, di pressocchè la metà di essa, fatte alla Badia di S. Giovanni in Fiore, onde il nome di Sila Badiale, ed al leggendario, ma forse accorto abate Gioacchino, che la fondò, nelle quali espressamente si dichiara tal demanialità, com'è manifesto dal diploma di Enrico VI del 20 ottobre 1195; (1) nonché il celebre Editto di Re Roberto del 24 dicembre 1333 (2).

Ma o perché lo Stato è pessimo amministratore, e tutti cercano però di profittare in suo danno, o perché l' uomo ha da natura l'istinto di far suo l'altrui, massime quando sia abbondanza dall'una e deficienza dall'altra parte, o perché esistessero particolari circostanze locali, il certo si è, che dopo lo stabilirsi della Monarchia, ben per tempo cominciarono le occupazioni ed usurpazioni dei privati sulle terre della Sila, in pregiudizio dei diritti fiscali. E dico ben per tempo, dacchè nel 1333 esse eran già divenute frequenti.

(1) Egli concede in tenimentis Silae... terras laboratorias, aquas et silvas... libera pascua in tenimento quod vocatur Fuca, et aliis tenimentis tam DEMANII NOSTRI, quam aliorum, quae sunt per totam Calabriam, tam scilicet in terris incultis, et cultis, quam in nemoribus et silois absque glandatico et herbatico. Questa concessione fu poscia confermata dalla imperatrice Costanza nel 1198 e dall'imperatore Federico nel 1200 - Mancini. Relaz. alla Cam. dei Deputati.
(2) Questo Editto dichiara, che non solo dalle assunte informazioni, ma benanche per istrumentum publicum authenticatum, in nostra curia praesentatum... extitit ipse Curiae plenaria fides facta, tenimentum seu TERRITORIUM Silas de ducatu Calabriae, que fore noscitur de MERO NOSTRO DEMANIO, et antiquitus concessa pridem magistro Michaeli de Cantono de Messana dilecto Consiliario familiari et fideli nostro, suisque haeredibus, infrascriptis finibus limitatur et concluditur terminis in hunc modum, videlicet (segue la descrizione e confinazione di tutta la Sila, compresa quella conceduta alla Badia Florense). Dopo ciò s'indicano i diritti che la regia Corte percepiva sulla Sila: Infra quod tenimentum Silae Curia nostra habet Ius Platheatici, Herbagii; Affidaturae animalium extraneorum, Glandagium, et lus Picis: exceptis hominibus Cusentiae, qui ad nihil pro praedicta solutione tenentur: Menera Ferri in quacumque parte Silae, Decimam victualium quae colliguntur ibidem, ac Platheam; et Monasterium S. Adriani tenetur solvere Bajulis Silae Bisantios auri quatuor, et Capras pro qualibet mandra quatuor – Mancini – Ivi.

Le vicende politiche, le guerre, i mutamenti di Sovrani, i disordini, che di ciò sono conseguenza naturale, vi dovettero non poco contribuire.

Re Roberto, con lo stesso Editto citato di sopra, vietò severamente codeste occupazioni, sotto pena della perdita della metà dei beni dell'usurpatore: ma come se non l'avesse fatto. Non v'è peggior cosa delle leggi ineseguite: o si ha la forza di farle rispettare, ed allora sta bene; o non si ha, ed allora è molto meglio non emanarle: è tanto di guadagnato nella moralità e nell'autorità. É scoverta la debolezza del potere supremo dello Stato, gli abusi che si volean repressi, crescono invece fuor di misura. Con ciò non voglio dire, per altro, che sia facile provvedere con efficacia e con felice risultato ad alcune violazioni, massime in tempi, come quelli che corsero per la nostra Monarchia sino al secolo decimottavo, quando mille diverse cagioni cospiravano tutte a render vana la legge, la quale mostrava la sua impotenza, con la sua sempre crescente severità.

Il Governo, quindi, dovette di continuo volgere le sue cure all'agro silano, per verificare ed impedire le difese, che ogni giorno crescevano di numero e di estensione. Ma indarno; e per cinque secoli è una lotta incessante tra il Fisco ed i privati occupatori. La faccenda era seria, e tale da mettere in pensiero.

Si sa le cose del mondo come vanno. L'esempio è brutto, è contagioso. Ad uno tengon dietro altri ed altri, la moltitudine fa conoscere la forza, incoraggia alla resistenza, aumenta la speranza, e ogni anno che passa è una conferma del mal fatto.

Di qui, il bisogno che si senti, in tutto questo intervallo di tempo, di mandar regi delegati nella Sila per verificare e far cessare le occupazioni. Ma tutte si riduceva ad un apparato. 

Costoro andavano, verificavano, e senza rimettere le cose ad pristinum, perché ciò non era, né è possibile in simili casi, tornavano là, ond'eran partiti, riferendo né più né meno di quel che già si sapeva. Inutile pertanto riusciva l'opera loro, eppure furono moltissimi che si seguirono in tali visite. Basti ricordare i nomi di Montalvo, Salluzzo, Valero, Marchese del Carpio, Mercader, Petrone, Venusio, Vanvitelli, Danero, Dentice.

Essi tornavano, gli usurpatori rimanevano nel possesso delle terre usurpate; la R. Camera della Sommaria ordinava di aprirsi le difese, le difese rimanevano chiuse. Cause lunghe aspre dispendiose si agitavano, ma a dispetto della legge, a dispetto dell'autorità dei giudicati, le cose non cangiavano. Dicono, che sangue e danaro si cavino a forza, e poi l'ostinatezza calabrese è pur troppo nota. Come fare? Quando due contendenti non vogliono cedere, nemmeno se l'uno dei due sia stato vinto, allora, perché la contesa abbia fine, un sol modo c'è, quello di rinunziare un po' per uno ai propri diritti: vale a dire bisogna transigere. Cosi si fece, e addì 13 novembre 1687, per notar Colascino, fu stipulato il primo istrumento di transazione tra il Fisco ed un numero considerevole di possessori.

Altre due transazioni furon fatte con altri possessori di difese dal 1723 al 1738 dal presidente Mercader.

Or transigere est alienare, ed alienare una parte di diritti che si vantano. Quali diritti poteano vantare quei cittadini sopra un demanio regio, che per sua essenza si apparteneva al re quanto all'uso, alla nazione, quanto alla proprietà, e l'uso n'era jure principatus, e la proprietà non poteva in alcun modo alienarsi, senza il consenso della nazione? L'inalienabilità del demanio, è stata sempre affermata dal nostro dritto patrio, a cominciare dai tempi di Federico II, quando surse la teoria, che il Sovrano avesse sovra di quello lo stesso diritto, che il marito sulla dote della moglie, e a venir giù sino ai tempi nostri. È vero, che il Miraglia nella sua relazione al Senato ha sostenuto il contrario, ma non tutte le ragioni da lui addotte paiono abbastanza salde. Non vi era, egli dice, nè legge, nè patto che avesse vietato l'alienazione delle terre demaniali. Concesso. Ma il diritto di una nazione non sta unicamente nella legge positiva, si anche nella dottrina e nella giurisprudenza. E la dottrina e la giurisprudenza, se vogliamo guardarle nella loro interezza, erano per la inalienabilità: questo è fuori dubbio. I nostri giureconsulti e magistrati, si son sempre ispirati a principii di libertà, ed han sempre inteso a favorire i popoli, sottraendoli all'abominevole potere feudale: e la inalienabilità del demanio tendeva appunto ad impedire la prodigalità del Principe, e quindi la miseria di quelli.

A chi sa, che a dominare e procacciarsi aderenti, allora, come oggi, bisognava dar sempre, non sembrerà strano, se io dico, che quel silenzio può attribuirsi all'aver voluto la Suprema Potestà Civile lasciare a se una maggiore ampiezza, e un'arma da servirsene nelle occasioni, al tempo stesso, che accoglieva la dottrina opposta. Ma gli esempi che si possono alligare in contrario, non son pochi. Verissimo. Ma quelli alligati dal Miraglia o sono anteriori alla teoria, o hanno un fine politico. E poi qual maraviglia, quando ogni potestà era nelle mani di un solo, quando neanche i privilegi e le grazie concessi alle città, mercè sacrifizii ed ingenti somme, non eran mantenuti (1), quando la storia di queste meridionali province, non è, nell'ordine dei fatti, che un ricordo d'incessanti violazioni ed abusi dei suoi Principi?

Se fosse altrimente, perché lo Stato avrebbe sempre invocato in suo favore la demanialità della Sila? Perché Federico II avrebbe prorogato dai quaranta o sessanta anni ai cento, la prescrizione contro il Fisco (2)? 

(1) La città di Lanciano e per aiuti prestati ai re Aragonesi ed Angioini, e per ingenti somme pagate, lungo cinque secoli, avea ottenuto 16 diplomi per conservarsi perpetuamente demaniale. Nondimeno nel 1690 essa fu venduta al Conte Alessandro Pallavicino Duca di Castro, rimasto creditore della Corte in ducati 28000 per viveri amministrati alle truppe; e quel che è più, fu obbligata a continuare l' annuo pagamento di ducati 240, che fin dal 1441 faceva per l'ottenuto privilegio di conservarsi in demanio. E simili casi eran cosi frequenti, che molte Università, perché non si fosse venuto meno ai privilegi concessi, ottennero di poter resistere con mano armata, uccidere i Commessarii regi, implorare l'aiuto dei Turchi, e sottrarsi al dominio del Re senza nota di ribellione. In tal senso erano i diplomi dell' università di Catanzaro del 1465, e di Rossano del 1464.
(2 ) Const. De prorog. praescript: Quadragenalem praescriptionem et sexagenariam, quae CONTRA Fiscum in publicis hac tenus competebat,usque ad centum annorum spatium prorogamus.

Intendo bene, che alienare videtur qui patitur usucapi, ma la prescrizione centenaria o immemoriale è, senza dubbio, molto improbabile, per la difficoltà di fornire la pruova dell' antichità e continuità del possesso, delle interruzioni naturali e civili, per avventura, avvenute, e della buona fede. Oltre di che, chi per cento anni ha lasciato, che altri abbia goduto della roba di lui, senza farsi vivo; che questo godimento sia divenuto consuetudine inveterata (VETUSTAS) equivalente ad una legge, e perciò al migliore e più efficace dei titoli, è troppo giusto, che perda sulla medesima i suoi diritti, che si poteva benissimo supporre avere egli già abbandonati. 

Tale statuizione è di ottimo legislatore, dacché in contrario verrebbero a ledersi interessi già legittimi, e a turbarsi la pace privata e pubblica dei cittadini.

Però la prescrizione delle terre fiscali o demaniali liberava i possessori dalla rivendicazione dominicale, e loro guarentiva la conservazione dei fondi, ma non li esonerava dall'obbligo di pagare sulle terre acquistate i CANONI e le PRESTAZIONI territoriali dovute sulle medesime (1).

In questo senso, io ammetto l'alienabilità del demanio regio, e quindi la sua prescrittibilità, giusta il dritto napoletano; e comprendo eziandio, come gli usurpatori della Sila potessero vantar diritti sovra di essa, ed ottenere una transazione.

Ed invero,tutte le loro ragioni si riducevano al lungo possesso.

Ma, bucato l'argine, è inutile opporsi alla corrente. Una volta transatto, e però riconosciuto il fatto di alcuni, le usurpazioni, e le difese crebbero ogni di più, con gran pregiudizio si del demanio, e si della pace interna della Calabria, essendo i cittadini di Cosenza e Casali concitati, perchè esclusi, nelle terre usurpate e difese, dall'esercizio degli usi civici che essi vantavano sulla Sila.

Allora Ferdinando IV, con dispaccio 10 agosto 1782, ordino di farsi un piano generale di questa, e l'incarico fu data a Giuseppe Jurlo, che lo adempi da par suo.

(1) Mancini. Ivi – L. 4, Cod. De praescript. XXX vel XL. annorum .

Secondo lui lo stato di fatto della Sila era il seguente:

  1. Terre aperte o comuni;
  2. Difese nella Sila Regia quali aperte e quali non;
  3. Terre aperte e difese non transatte nella Sila Badiale.
  4. Usi civici nelle terre aperte , e diritto di semina nelle medesime col pagamento dei diritti di bagliva.
  5. Camere chiuse (1).

Intanto i tempi intorbidaroro, e ognuno sa quel che successe. Vennero i Francesi, abolirono la feudalilà, provvidero alla divisione de' demanii, ma la Sila rimase esclusa; tornò il governo borbonico, ristabilì le cose secondo erano a lui indettate, ma per la Sila, niente. E ciò, sino al 1838, quando temendosi in Napoli, che col 31 dicembre di quell'anno la prescrizione estinguesse ogni azione del fisco su quel demanio, si decreto l'interruzione della prescrizione, e l'istituzione di un Commissariato civile per la risoluzione di tutte le questioni Silane.

I decreti han la data 5 ottobre 1838 e 31 marzo 1843.

Essi però non soddisfacevano allo scopo, quantunque Cesare Marini, nel suo discorso sulla Selva Bruzia, li lodi e li esalti tanto: sottoponevano ad un magistrato straordinario, questioni che doveano esser decise dai giudici ordinarii, e lasciavano a lui troppo grande arbitrio.

Seguirono loro due rescritti, l'uno del 30 aprile 1851, relativo a una Giunta di cinque magistrati, che emetteva semplici avvisi da sottoporsi alla sovrana approvazione, intorno ai richiami contro le decisioni del Commissario; e l'altro del 9 maggio, stesso anno, il quale dichiarava esser dovuta sulle difese transatte la prestazione della fida, giogatico o granetteria (2), non a norma del Bando della R. Camera della Sommaria del 9 giugno 1618, ma invece in ragione della estensione delle terre. Questo rescritto, che era un' aperta ingiustizia, e ledeva diritti irrevocabili per le due parti transigenti, fu provocato appunto da un Commissario Civile.

(1) Eran cosi dette, perché contenevano boschi destinati alla costruzione navale, e in cui era vietato di seminare.
(2) La fida era la prestazione pagata dai cittadini usuarii per gli animali che menavano a pascere nelle terre della Sila. I Romani la dicevano scriptura. Il giogatico era la prestazione pagata da chi entrava in quel le terre coi buoi di aratro. La granetteria era la prestazione pagata da chi vi entrava con la zappa per seminare.

Le speranze e i desiderii di tanti anni eran quindi deluse, e facea bisogno di un' altra legge, informata a principii più alti e più sani, che ponesse termine alle controversie, e provvedesse definitivamente all'Agro Silano, che n'era la cagione

Il Governo napoletano avea troppo esagerato i suoi diritti, e questa esagerazione da parte sua, portava anche l'esagerazione da parte dei possessori delle terre occupate, e dei cittadini che vantavano gli usi civici. Di qui, la discordia fra questi, e l'impossibilita di ravvicinare gli opposti interessi.

Sorto e stabilitosi il Regno d'Italia non era più lecito permettere la durata di un tale stato di cose, che mentre causava disordini e delitti, turbando cosi la pace interna di due feracissime e belle province, ed abbassando l' ordinamento della proprietà territoriale, era anche il motivo principale dell' esistenza del brigantaggio.

Se con l'art. 21 del decreto 7 giugno 1807, relativo alle istruzioni pel ripartimento dei demanii nel reame di Napoli, si escluse la Sila di Calabria, ciò fu per alte ragioni di politica e di giustizia.

Falsi calcoli di malinteso sistema fiscale toglievano da più secoli all'agricoltura, e spogliavano di popolazione quel vasto demanio. Per estirpare quindi il male dalle sue radici bisognava colonizzare e rendere abitato e coltivato quel luogo deserto.

Questo nobile e ardito disegno Gioacchino Murat tentò di colorire col decreto 2 luglio 1810, promettendo di concedere gratuitamente le proprietà della Sila a quelle famiglie italiane o straniere, che volessero fondarvi cinque villaggi da 100 a 150 abitazioni, e l'esenzione per 20 anni, da ogni imposta personale.

Ma esso rimase ineseguito, non perché, come dice il Marini, i Calabresi rifiutarono di ricevere in dono ciò che credevano appartenergli in proprietà, si bene perché la Sila era in quei tempi, più che per l'addietro, sede troppo temuta. 

Onde segue, che se, come insegnano Ulpiano e Paolo , vetustas semper pro lege habetur, e peró dee rispettarsi inviolabilmente, se la coltura e il lavoro delle terre incolte valgono pure qualcosa, gli occupatori ed usurpatori di essa non aveano, dal lato dell'equità, tutto il torto del mondo, quando sostenevano essere essi i soli legittimi e benemeriti proprietarii della Sila, poiché da epoche remotissime l'avean coltivata e fecondata coi loro sudori. E lo stesso Zurlo riconosceva i benefizii apportati dalla coltura e dall'industria di codesti occupatori nelle contrade già incolte e deserte delle Calabrie, e consigliava il Governo a comporre con equità quelle secolari controversie, a consacrare i fatti compiuti, ed a non spogliare col sommo rigore del diritto quegli antichi coltivatori della terra resa da essi feconda e produttiva (1).

Di fronte a tanti interessi, legittimi, o illegittimi, ma esistenti e vivi, a tanti processi, onde il demanio non sarebbe potuto uscire vittorioso, se non avvalendosi del summum jus, e producendo la spogliazione e la miseria di una gran parte dei proprietarii calabresi, all'incertezza della legge ed al dubbio dei magistrati, alla probabilità di prolungare indefinitamente le liti, e di perpetuare le calamità e le discordie di due vaste e popolose province, in cui perciò la proprietà si rendeva incerta, l'agricoltura avvilita, ed impoverito il commercio, il Governo italiano non poteva rimanere impassibile, ma dovea provvedere subito e con efficacia.

Prima il Ministro Minghetti nella tornata del 28 maggio 1863 presentò al Senato un disegno di legge sulla Sila; poi il Ministro Sella, nella tornata del 21 novembre 1865; ed infine il Ministro Scialoia, nella tornata del 18 dicembre 1866. Quest'ultimo disegno, studiato profondamente dalle Commissioni delle due Camere, delle quali partecipavano gl'ingegni più eletti di esse, diventò la legge del 25 maggio 1876, N.° 3124. Ser. 2."

(1) Mancini - Loc. cit.

Con questa legge, giusta il principio di mantenere quanto è possibile lo stato attuale di possesso, ed accettare i fatti compiuti, lo Stato, rispettando le sentenze del Commissariato Civile, passate in autorità di cosa giudicata, rinunzia a tutte le liți per la rivendicazione delle terre, e mentre generosamente, massime per la Sila Badiale, lascia queste in pieno dominio dei possessori, ne percepisce le modiche prestazioni territoriali e dominicali, che ab antico eran dovute per fida, giogatico e granetteria, e che furon confermate sol decreto del 1843. Per la liquidazione sono adottate le norme e la tariffa del rescritto del 1853, non perché non sia riconosciuto esser più giusto adottare quelle del Bando del 1618, ma perché oggi ciò sarebbe tornato fuori modo malagevole, se non del tutto impossibile, pel criterio onde quelle erano stabilite, ed anche per le operazioni finanziarie che avrebbero dovuto farsi. Se però si applica verso i debitori questa misura alquanto più gravosa, si rende più facile il modo di redimerle, accordando loro il pagamento a rate, e nel termine di venti anni.

Rinunzia alla servitù dell'alberatura, mercè compenso da fissarsi d'accordo, o per perizia; e ritiene solo 3500 ettari di terreni boscosi, a sua scelta, per uso della marina.

Son compensati largamente gli usi civici, cedendo ai Comuni circa la metà delle terre di tutto l'agro silano, con facoltà di quotizzarle o censirle, secondo l'avviso del Consiglio provinciale; nonché, anche in soddisfazione di ogni loro possibile credito, l'intero capitale, che si riscuoterà durante venti anni si dall'affrancamento delle prestazioni, e dei loro arretrati, e si dal valore dell'alberatura. Esso è addetto alla costruzione di strade che attraversino la Sila in tutti i versi, e al loro mantenimento.

Tutti i proventi dei varii crediti saranno versati in una cassa speciale presso la Direzione Generale del Demanio, e annualmente erogati in sussidio della costruzione di tali strade, e l'eccedenza in sussidio della istruzione popolare nei comuni che vi han diritto.

Per la liquidazione del capitale delle prestazioni e del valore degli alberi, e per l'assegnazione delle terre e decisione delle controversie, che per avventura potranno sorgere, sono istituiti appositi ed inappellabili arbitri. Unico mezzo di finirla presto ed evitare ambagi giudiziarie.

Nell'atto pratico però questa legge trovò alcuni ostacoli ad essere applicata, e fu necessario di modificarne, con altra legge del 23 dicembre 1880, N.5795, gli articoli 8, 14 e 15.

Cosi il Governo italiano, ispirandosi a principii di vera libertà ed anteponendo all'interesse fiscale la pubblica tranquillità, che non dev'essere mai perduta di vista dall'accorto e prudente legislatore, dava fine all'eterna questione della Sila, e rendeva un gran servigio non pure ad una regione, ma alla patria intera.