CAPO I. Del Municipio romano

SOMMARIO - Necessità di rifarsi dall'alto - Causa della grandezza di Roma é il conferimento della cittadinanza ai vinti - Il che ella mise in atto col sistema municipale - Il Municipio fu istituto principalmente politico - Sua decadenza - Entra nel congegno dell' impero solo per la reclutazione dell'esercito, pei lavori pubblici, e per la riscossione delle tasse - Proprietà pubblica in genere. Eufiteusi e colonato - Proprietà pubblica de' Municipii - Prima origine dei pascoli pubblici e degli usi che vi si riferiscono.

La storia è una catena, ed un anello non si può riconoscere, smagliato che sia dagli altri con cui s'intrecciava. Essa non ha nulla di fisso: è tutta evoluzione e trasformazione: una serie continua di cause e di effetti. Sicché, non si potendo aver chiara notizia del poi, senza conoscere il prima, è mestieri rifarla, almeno in quel che più importa, e trarne le opportune conseguenze, se si vuol cavare da lei un utile qualsiasi. E noi cosi facciamo. A dar maggior lume a ciò che verrà appresso, risaliamo difilati alla repubblica ed all'impero romano, e cerchiamo di far nostro pro quanto è possibile.

Spesso, meditando sul mondo antico, ho veduto innanzi a me l'Oriente, la Grecia, Roma, come tre figure vive di puro spirito, belle di diversa bellezza, grandi di diversa grandezza, e mi son fermato ora all'una, ora all'altra, e mi sono studiato di trovare la cagione di questa loro diversità, e n'ho goduto, o m'è doluto, secondo che ho conseguito, o non, l'intento. E quello che sempre più m'ha dato a pensare, è stata la diversa grandezza di Grecia e di Roma. Onde? ho detto fra me, onde ciò?

Non ebbe la Grecia valorosi capitani, prodi soldati, mare prossimo, insomma tutto che può contribuire al predominio di un popolo sovra di altri? E sino la forma, il concetto dello Stato, non fu in loro quasi lo stesso, produzione conscia e libera dell'uomo? Platone ed Aristotile e tutti i monumenti della romana sapienza ce lo attestano. Salvo la varietà d'indirizzo, il valore assoluto dello Stato fu pei Romani, come pei Greci. Stesse, dunque, in tal varietà, la ragione vera che cerchiamo? Sicuro, è proprio qui. A non guardare, che le sole parole politia, cosa della città, e Respublica, cosa del popolo, si scorge la maggiore profondità della coscienza politica dei primi sui secondi; dacchè l'idea più si spiritualizza, e più è facile a propagarsi. E se Roma, non cessando di essere l’Urbs, divenne l'orbs, fu perchè ella, spiritualizzando, a cosi dire, sè stessa, volle animare gli altri del suo spirito; perchè immedesimandosi nell'idea del diritto, volle: partecipare agli altri il suo diritto. Mi spiego.

Cicerone, nell'arringa pro Balbo, al capo terzo, ha queste parole: Illud vero sine ulla dubitatione maxime nostrum fundavit imperium et populi romani nomen auxit, quod princeps ille Romulus, foedere Sabino docuit etiam hostibus augeri civitatem oportere.

(traduzione: "Ma ciò che indubbiamente ha fatto di più per stabilire il nostro Impero e aumentare la fama del popolo romano, è che Romolo, il primo fondatore di questa città, ci ha insegnato dal trattato che ha fatto con i Sabini, che questo Stato dovrebbe essere ampliato dall'ammissione anche dei nemici come cittadini" - ndr)

E Livio, nel libro ottavo della sua storia, al capo dodicesimo, fa proporre da Camillo al Senato, tali partiti: Vultis crudeliter consulere in deditos victosque? licet delere omne Latium; vastas inde solitudines facere, unde sociali egregio exercitu per multa bella magnaque saepe usi estis; vultis exemplo majorum augere rem Romanam victos in civitatem accipiendo?

(Tito Livio: Volete essere spietati con coloro che si sono arresi e sono stati sconfitti? potete cancellare l'intero Lazio, e farne poi una vasta landa desolata. Volete, sull'esempio degli antenati accrescere Roma accogliendo i vinti nella città? Avete a portata di mano l'occasione propizia per ingrandirvi apportando enorme gloria - ndr)

Da questi due luoghi allegati io stimo non potersi da nessuno revocare in dubbio, come la causa della romana grandezza sia stata la grande, chiara, definita idea del diritto, e la partecipazione di esso ai nemici, i quali, secondo s'ha da Dionisio, erano eodem die hostes, dein cives (allo stesso tempo nemici e cittadini). Ogni vittoria di Sparta o di Atene fu la sovrapposizione di esse ad altre città, divenute loro soggette e tributarie, ogni vittoria di Roma fu l'ampliamento dei confini civili della città, del numero de' suoi cittadini, del popolo romano, il quale prima occupò un punto, poi tutto il mondo allora conosciuto, stampandovi un'orma che non si dileguerà giammai: dacche il diritto, che è l'uomo stesso, non può finir che con lui. Solo perciò, dunque, quello Stato, prima popolare (Volkstat), potè poi divenire mondiale (Weltstat), e al romanus sum seguire l'homo sum.

E ad assimilarsi gli stranieri, facendoli, cioè, suoi cittadini, Roma tenne tale modo.

Operoso, forte, guerriero, com'era il suo popolo, nello spiegare la sua azione, s'avvenne:

  • 1) in città floride e potenti, e queste rese semplicemente città federali, civitates foederatae, serbando loro indipendenza ed istituti;
  • 2) in città deboli e benemerite, ed a queste concesse il munus civile, cioè, i diritti e i doveri de' cittadini romani, ed il nome di municipia, lasciando loro leggi e magistrati; (a)
  • 3) in città debellate e vuote, ed a queste diè suoi cittadini per abitanti, e il nome di coloniae, assoggettandole in tutto alle leggi romane;
  • 4) in città temerarie e fedifraghe, e queste, spoglie di ogni autonomia, disse praefecturae, e fe reggere da un praefectus iuri dicundo, che vi deputava ogni anno.

(a) Questo munus però era semplicemente onorario: era la concessione della cittadinanza, in potenza, non in atto, altrimenti non si sarebbe potuto conciliare con la indipendenza delle leggi. Diveniva tale, rinunziando all'antica città, ed aggregandosi ad una delle tribù romane: ciò che sappiamo aver fatto varie famiglie, tra cui quella dei Catoni.
Vedi al proposito, Lomonaco. Origine natura e vicende del gius municipale.

Le civitates foederatae, formavano i popoli, cosi detti, non fundi, ossia, che statuivano essi stessi intorno alle proprie cose, con quel diritto che volevano; (b) le coloniae e le praefcturae formavano, invece, i popoli, cosi detti, fundi, ossia che non vivevano del proprio diritto, ma del beneficio dei Romani, (c) beninteso però, che la condizione civile delle prime era meno dura di quella delle seconde.

I municipia costituivano lo stato intermedio tra i popoli federati, e i popoli fondi; mentre il regime amministrativo e giudiziario, al pari delle colonie, competeva ai Senati ed officiali locali.

Intanto coll'andar del tempo, l'una città passó nella condizione dell'altra: la legge Giulia concesse la cittadinanza, col jus suffragii, che n'era parte essenziale, sovrano e prezioso attributo, a tutte le città d'Italia, commosse alla guerra sociale; altre leggi l'estesero alle provincie, e i nomi di municipio, colonia, prefettura, città federata cominciarono a scambiarsi a vicenda, sino a che tutti si confusero e fusero in quello più generico di municipio. Il quale, come dice Savigny, divenne allora imago romanae reipublicae, e dinotò qualunque città abitata da cives romani. In tal guisa, mentre il molteplice diveniva uniforme, simplex et unum, e, municipes s'appellavano i cives cujusque civitatis, si feriva l'autonomia dei municipii, togliendo loro l'impero, e diventava gigante il principio, che ogni giurisdizione derivi dalla volontà dell'imperatore: onde l' adagio, Roma est ubi imperator est.

(b) Cic. pro Balbo. Non fundi statuunt ipsi de suis rebus, quo jure uti velint.
(c) Id. sid. Non suo jure, sed beneficio nostro.

Sovraimporre, assimilare, confondere sono le tre idee, i tre momenti storici per cui l'umanità si svolge. All'atto, il popolo romano conduce a rimorchio le città a lui confonderate, poi le incorpora, infine cerca di assimilare e rendere omogenee tra loro tutte le parti della vasta dominazione. A niuno secondo per prudenza di Stato e virtù militare, egli conquistando nazioni dissimili di usanze, di abitudini, e spesso di favella, lasciava in conforto ai vinti l'esercizio delle patrie leggi e consuetudini, e la libera amministrazione de' beni; loro non toglieva, che la facoltà del nuocere. Nell'ampliarsi, cercava farsi compagni, ma non si da non rimanere a sè il grado del comandare, la sedia dell'impero, e il titolo delle imprese. Voleva insomma affratellarsi le straniere nazioni più col benefizio, che col terrore; più con l'alleanza, che con una triste servitù: Populum romanum beneficio quam metu obligare homines malle, exterasque gentes fide ac societale junctas habere, quam tristi subiectas servitio (1).

Ma era l'amicizia e l'alleanza col più forte, la quale, con qualunque parola voglia velarsi, é sempre inferiorità e servaggio; e questi suoi compagni, che in effetti poi eran costretti a non riconoscere amici o nemici, se non quei che tali si aveano da lui, venivano, senza avvedersene, colle fatiche e col sangue loro, a soggiogar sé stessi. Sino il beneficio della cittadinanza, il maggiore che potesse esser conceduto, era il beneficio dell'uomo scaltro, che dà dieci per ricever cento: gli Equi, secondo narra Tito Livio, affermavano pubblicamente che la cittadinanza romana era una pena necessaria, per coloro che non aveano potuto impedirla. Il prestigio, invero, e le attrattive di essa spinsero molte città a vulnerare la loro indipendenza. (2) Onde, ben a ragione il nostro acuto Toscano avverte, come per haec captiosa blandimenta municipia coeperunt Romano imperio subjici; (3) e il Cenni (4) nota come appunto la comunicazione della cittadinanza fu la leva potente, di cui Roma si valse a disfarne l'indipendenza, ed a ridurne prettamente gli abitanti in cittadini romani, assorbendoli nella civitas dell'Urbs. Entrando a far parte della civitas romana, essi erano ligati alla sua conservazione, e nulla potevano intraprendere contro lo Stato romano, senza delitto di fellonia.

(1) Livio.
(2) Lomonaco - Loc. cit.
(3) De caus - roman. jur. lib. V.
(4) Studi di diritto pubblico - Cap. 1.

Di qui è manifesto, il Municipio essere stato un istituto principalmente politico, il quale a poco a poco venne perdendo d'importanza, ed alla fine non entrò nel congegno dello Stato romano, se non per la reclutazione dell'esercito, pei lavori pubblici, e per la riscossione delle imposte. Di quest'ultimo carico, massime, la Curia, o l'Ordo, che torna lo stesso, era cosi pienamente responsabile, che i suoi membri doveano, coi propri beni, colmare le deficienze, cagionate dal continuo crescere delle medesime, nelle riscossioni. La jugatio terrena (fondiaria), la lustratis collatto (tributo sulle professioni), la capitatio plebeja (testatico) eran le tasse, che non tanto per se, quanto per la smisurata ingordigia degli esattori, spogliavano i miseri proprietari. Onde Lattanzio dice, che all'arrivo degl'impiegati del censo nelle provincie, diffondevasi un allarme, come all'approssimarsi di un nemico apportatore di orribile schiavitù. E se a cosiffatte enormezze di carichi, si aggiunge la secolare rovina dei latifondi, il mal costume, lo spopolamento, e via, non ci faranno certo maraviglia i tristi colori di che gli storici del tempo ci dipingono il quadro degli ultimi secoli dell' impero romano. I sintomi del morbo consuntivo di esso, s'eran cominciati a manifestare sin da Giulio Cesare, il quale credé ripararvi con le colonie militari. Ma questo mezzo fu inefficace, e si dovė far ricorso all'infiteusi, e al colonato. Che cosa furono questi due istituti?

Lo Stato, quale organismo perfetto e vivo, per adempiere i suoi varii fini, ha mestieri di una proprietà, che, appunto dalla sua destinazione, dicesi, pubblica, quasi populica. Pei Romani, essa fu, da una parte, le vie, i templi, i teatri, il foro, i fiumi, il mare, i suoi lidi, e simili; e dall'altra, i tributi, e l'ager publicus. Il resto lasciamolo li, e diciamo pur brevemente di quest'ultimo.

L'ager publicus veniva formato dai beni de'vinti, fondi, boschi, pascoli, monti, conquistati, a mano a mano, dal primo nascere della Repubblica. Secondo i diversi luoghi ebbe nome di Campanus, Reatinus, Lucanus, Picentinus, e via discorri, e fu cagione, bene spesso di lotte e di discordie tra i patrizii ed i plebei, i quali, per essere troppo solleciti i primi a farlo proprio, ne rimaneano esclusi. Di qui le leggi agrarie di Cassio, Licinio, i Gracchi, ed altri, che cercavano modo e misura nell’equa ripartizione di esso in populum victorem, come dice Siculo Flacco. Ma lo scopo non fu mai raggiunto, e le ricchezze de' ricchi crebbero, come crebbe l'ager publicus, cioè fuori ogni limite. Patrimonium Romani populi, dato in affitto dal Questore, s'appellava, ager quaestorius; venduto col patto di ricompra, dal censo che pagava il compratore, vectigal, s'appellava ager vectigalis; destinato a uso di pascolo, dallo scrivere che i pubblicani facevano i diversi capi di bestiame, s'appellava, ager sciptuarius, conceduto con la corrisponsione del decimo del frutto, s 'appellava, ager decumanus.

Ma la sterminata estensione di esso, gli effetti distruttivi delle conquiste, l'ozio de' liberi, la malaugurata consuetudine di non affidare le terre, che agli schiavi, la scarsezza delle braccia fecero si, che quasi tutta Italia, quasi tutta ager publicus, diventasse deserta, incolta, lugubre. Allora, come ad incitare i coltivatori, le concessioni di questo, che soleano farsi a tempo, si fecero in perpetuo, e coll'obbligo di migliorare i fondi, e si denotarono con la parola, enfiteusi, che significa coltura.

E non si ottenendo il fine, né con ciò, né con altrimodi, prima Massimino, e poi Costantino, Onorio, Arcadio, fecero venire di Gallia e di Germania gente a popolare questi campi, e diedero principio al colonato, che se non fu schiavitù, non fu certo molto dissimile.

Alla stessa guisa, che i bona publica romanae Reipublicae, erano i bona publica civitatum, consistenti anche in alcune cose, o per costume o per legge sottratte al commercio umano, come il foro, le vie, i templi, i fiumi, e simili; e in alcune altre, come le gabelle, e l'ager publicus, diviso alla medesima forma, che abbiamo veduto di sopra. E nell' amministrazione di questi beni, i magistrati ebbero sempre cosi piena libertà, da poterli fino vendere.

Allo svolgimento della vita locale l' impero volle che attendesse il potere locale de' decurioni: egli vi avea troppo poco interesse, da non lasciare in ciò una certa autonomia; autonomia del resto, di carattere anzi di diritto privato, che pubblico. Tanto vero, che perduta i Municipii la loro importanza e indipendenza, non furono avuti, che loco privatorum, e i lor beni, secondo si scorge dai testi (1), non erano propriamente detti pubblici, se non quando quelli si consideravano in se stessi, e come pubbliche persone. E di tali res publicae, o bona reipublicae, dacchè respublica significava eziandio, civitas, l'uso era de' soli cives romani, esclusi tutti gli altri abitanti.

Sicché, qui è da ricercare la prima origine del nostro demanio comunale, tra perché la proprietà pubblica, nata con la società, la segue in tutte le sue trasformazioni e vicende; e perchè, qui t'avvieni in quella nuova specie di proprietà comune, che sorse da tutte le tristi cagioni dette di sopra, e fu l'ultima e massima ruina dell' agricoltura: voglio dire de' pascoli pubblici patrimoniali e municipali, che con l'andar del tempo, formarono l'unica industria delle città e dei villaggi, sostituirono all'agricoltura la pastorizia, e dettero principio a quella giurisprudenza di usi e di servitu, le cui vestigia durano ancora (2).

Questo però beninteso, che per aversi il demanio comunale nella sua essenza, il Municipio dovea diventare Comune.

(1) L. 15 D. De Ver. sig. - e L. 12 ejus. tit.
(2) Wispeare - Hist. Abus. feud. - Cod. de pasc. pub. et priv.