CAPO II. Del Comune
SOMMARIO - Il Municipio e il Comune sono due istituti diversi - Cause della caduta dell'Impero romano - Scarsezza di studii intorno ad esse, e massime intorno a Cesare - Odoacre e Teodorico lasciano esistere le istituzioni romane. - I Longobardi le abbattono tutte, compresa quella del Municipio - Il Cristianesimo e i barbari per diverse vie giungono alla stessa meta - Il Municipio diventa Universitas, Comune, e i suoi beni, bona communia - E ciò fu progresso, perché fu l'ampliarsi del l'idea della società umana - L'idea del Comune è affatto civile, ed essa rifulse, più che altrove, nelle provincie meridionali d'Italia - La quale come dette all'Europa il più compiuto modello dello Stato antico e moderno, cosi le dette anche la più perfetta idea del Comune.
E v'ha, dunque, differenza tra il Municipio e il Comune? I due diversi nomi lo dicono. Oh, ed essi non si usano l'uno per l'altro? Si usano e male si usano. Se sono due nomi diversi, sono due idee diverse. E a non star qui ad asserire, come pure oggi è stile di molti, eccomi a dimostrarlo.
Ogni studioso della storia sa quanto si sia scritto sulla caduta dell'impero romano. Basti questo, che ognuno ha voluto dir la sua. Figurarsi, quindi, fra tanta roba, che roba v'abbia ad essere. Buona, mediocre, cattiva, pessima. Ed è giusto; perché si tratta di cercar cagioni e ragioni, cosa, la quale non a tutti è dato fare, eppure tutti, anzi tuttissimi vogliono fare a ogni costo.
Ma Lutero non diceva, il perchè aver mutata la faccia della terra? Sicuro, sicurissimo; ma il vero perché. Ed ecco l'imbroglio: il perchè, il vero perché, il falso perchè tendono tutti ad un medesimo fine, scovrire la verità, e sono da mettere in un fascio, da accettare, come noi accettiamo tutte le diverse cagioni assegnate alla caduta dell'impero romano; tenendo però ciascuna in quel conto che merita.
La corruzione, la sconfinata grandezza, il dispotismo de' pretoriani, il Cristianesimo, la cessione di terre ai barbari e la loro ammissione nell'esercito e romanizzazione, la divisione dell'unità del potere supremo, cominciata con Diocleziano, le insurrezioni, il cambiamento della capitale, i latifondi, la miseria, le invasioni dei barbari e il rendersi loro tributarii, la mancanza di navi, e via, si, dicono tutto qualcosa; anzi, nell'insieme, ci danno proprio il triste quadro del tempo, e la causa prossima, per dir cosi, di quel grande avvenimento. Ma l'affare è qua, che oltre a questa causa prossima, ci ha ad essere una causa remota, una ragione superiore a tutte queste cagioni. E tale ragione, io non so, se sia stata notata. Potrebbe dipendere dalla mia ignoranza, e se è, me ne rallegro di cuore per la scienza; ma io, che non so mentire nè agli altri, nè a me stesso, debbo confessare, che per me ora il fatto è questo.
Nell'universo...; ma no, l'universo, prendiamo piuttosto l'individuo. Nell'individuo, sin dal suo primo concepimento esistono due forze tra di loro diametralmente opposte. Non trovando altre parole più proprie, dico l'una, accrescitiva, l'altra distruttiva. La lotta è fiera incessante continua. E quanto la prima è più energica, più viva, tanto la seconda guadagna, e quando la vis di quella è andata a poco a poco finendo a benefizio di questa; questa è subentrata nel suo posto. Sicché dove prima era gioventú, trovi vecchiezza, dove vigore, debolezza, dove energia, languore, dove vita, morte; e, in altro ordine, dove ricchezza, miseria, e via. Or se cosiffatte due forze, come nell'individuo, sono anche nella società, ne segue, che l'una dee necessariamente dar luogo all'altra, che l'altra cresce a spese dell'una, e quando si trova al posto, già occupato da lei, non vi si trova punto ex improvviso, ma perchè ogni giorno ha guadagnato un tanto.
Ciò posto, mi sia lecito dire, che l'impero romano non cadde, ma fu un continuo cadere, o per dir meglio, il mondo romano poichè ebbe esaurita la sua vita, pigliò il nome d'impero. Or, quale fu questo principio vitale, intorno a cui un intero popolo, per sette secoli s'aggirò a mo' di turbine? Quale l'altro, che venne si accanto a lui, e gli si oppose e sovrappose? Non è qui il luogo di cosiffatta ricerca, nè essendo, avrei la temerità di farla: conosco, quid valeant humeri. Ma, se non erro, mi pare, che questo sia un punto, sul quale non abbiamo soverchi studii, almeno serii, via. Quell'anello che unisce le due catene della repubblica e dell'impero, non è abbastanza conosciuto.
Ed invero, che abbiamo di buono circa il massimo Giulio Cesare? Il Rovani, lo Zendrini, non so chi altri: ma vi paiono eglino bastevoli a ricostruire quel colosso, innanzi alla cui immensità, voi vi sentite spaventati? Non vi pare che questi appena delineino, piuttostochè riempiere di carne e polpa la grande figura di quell'uomo, che primo mirò alla redenzione della plebe?
Il Mommsen, fra i tedeschi, si leva sopra di tutti, ma lo dice, maestro d'intrighi, e tal concetto lo allontana dal vero. Che vi bisogna, dunque? Meditare e lungo meditare sull'evoluzione del pensiero che s'incarnò in colui, il quale, forse non a torto da alcuni fu paragonato a Cristo. E dacché m'accorgo d'essere uscito un po' troppo fuori del dovere, fo punto, e ripiglio il filo del discorso, dove l'ho lasciato, e ripeto, che l'impero romano fu un continuo cadere, e l'Occidente, quando nel 476 Odoacre rilegò Augustolo al capo Miseno nel Castello Lucullano, restringeasi alla sola Italia, essendo tutto il resto in mano de' Visigoti, de'Borgognoni, de Franchi, dei Vandali, degli Anglosassoni; e quella in che misero stato! S'ha dalla storia, che allora un popolo muta volentieri signoria, quando o è imbelle e debole, o il carico delle sue sventure è tale, da far sperare un sollievo ad ogni mutamento. Proprio il caso d'Italia, alla cui conquista Odoacre non trovò quasi ostacolo alcuno.
L'esercito a Pavia gli avea dato il titolo di Re, il Senato a Roma glielo avea confermato, egli prese quello di patrizio romano. Perchè? Astuto, com'era, intendeva benissimo, che il chiamarsi re d'Italia era cosa troppo nuova, e che non potea fondarvi un nuovo ordine di cose. E non lo fondò. Salvo la partizione tra i suoi di un terzo delle terre dei vinti, le istituzioni rimasero intatte; anzi ristabili in Roma il consolato, che vi mancava da sette anni. Nè altro modo tenne Teodorico il quale non pure si limitò al rispetto di quelle, ma le fe base del suo Editto, onde s'ebbe quella miscela di giovane barbaro e vecchio romano, che poi fu il carattere del medio evo. Ambidue cercarono di conservare gli avanzi di quel colosso, che sebbene caduto, era pur degno di grande ammirazione. Quelli, che abbatterono tutto, furono i Longobardi, che numerosi e forti occuparono quasi l'intera penisola, e la dominarono per ben due secoli. E qui, gli storici s'accapigliano intorno a due questioni difficilissime, l'una, quale sia stata la condizione dei Romani vinti sotto i Longobardi; l'altra, se si fosse conservato il sistema municipale. Circa la prima, il Troya (1 ) e l'Hegel (2 ) stimano gl'Italiani essere stati spogliati di loro personale libertà, e, aldii, divisi tra i vincitori; Savigny (3) e Boullier (4 ) stimano al contrario, aver essi conservata la libertà personale, e la condizione di proprietarii. Noi siamo per quest'ultima opinione.
Circa la seconda poi, il Savigny afferma, il Boullier nega; e perchè essa c'importa di più, eccoci a dirne qualcosa un po per disteso. Gli argomenti dell'illustre tedesco e de' suoi seguaci sono le lettere di S. Gregorio, e un diploma piacentino del 721. Fra le lettere di S. Gregorio ve n'ha d'indiritte alle città italiane con la soprascritta: clero, ordini, et plebi. Or, dice l'uno, se base del Municipio era l’Ordo, è chiaro, che tali città dovessero essere municipii, e che per conseguenza i Longobardi serbassero cosi fatto regime.
(1) Discor. sulla cond. de' Rom. vinti sotto i Long.
(2) Stor. delle costit. delle città ital. (tedesco).
(3) Il diritto rom. nel m . evo.
(4) Essai sur l'histoire de la civil. en Italie.
Nel diploma piacentino si trova la radicale exc. Exc è radicale del nome exceptor, ma l'exceptor era un funzionario curiale, dunque... Ma sol che si osservi; 1. esser molto dubbio, se le città a cui le lettere si riferiscono, erano in mano de' Longobardi, quando esse furono scritte; 2. non v'essere più pericolosa induzione storica, che quella fondata sull'esistenza di antichi nomi, i quali spesso non sono, che un puro e semplice ricordo di tempi passati ; 3. che la formola, clero, ordini et plebi era una pura tradizione di cancelleria, e si trova appropriata da Gregorio II ai Turingi, e da Urbano II ai cittadini di Reims, e usata eziandio nella elezione del vescovo, o nella notificazione di essa al metropolitano; 4. che trattando il diploma piacentino del mundio di donna longobarda, l'exceptor non v'avea nulla a fare; 5. che le tre lettere exc possono essere anche la radicale di excriptor, o exscriptor; sol che si osservi, ripeto, tutte queste ragioni si fa manifesto anche a un cieco nato, la meschinità de' detti argomenti. Non è probabile il rimanere delle istituzioni amministrative, quando sia svanito il pensiero, che le informava (1). Onde è da concludere, che il regime municipale, mantenuto, quanto fu possibile, da Odoacre e da Teodorico, sotto i Longobardi spari del tutto; e con esso l'antico diritto romano, di cui quelli non lasciarono sussistere, che solo le relazioni, le quali nei loro editti non erano state considerate. Ma questo, solo in principio di loro dominazione, perchè seguito al primo impeto la pacatezza, e al primo scompiglio l'assetto, avvenne quel che ragionevolmente dovea. I vinti, cioè, di gran lunga più numerosi e civili, si assimilarono i vincitori meno numerosi e più rozzi, e dettero loro lingua, costumi, donne, leggi per riempiere le lacune, o lenire il rigore delle proprie, e religione. Anzi questa, la cui differenza avea messo un abisso fra Goti e Italiani, fu il più valido fattore tra Longobardi e Italiani. Né è il solo frutto del Cristianesimo. Esso predicato quando i popoli, già separati e divisi, si videro vincolati e fusi insieme, e cominciarono a sentire la loro unità, brillò sulla terra come un raggio di luce, secondo dice Eusebio, e maravigliosamente affrontati i pericoli, vinti gli ostacoli, andò innanzi a passi di gigante, e in breve si sparse da per tutto.
(1) Bertolini – Stor. del M . Evo .
E con lui, la nuova civiltà ch'era in esso incubata. Ogni privilegio di casta è tolto, ogni dispotismo e signoria di uomo sopra uomo è scalzata dalle fondamenta; il principio dell'eguaglianza di tutti innanzi a Dio è proclamato; la fratellanza degli uomini, ne stimola la carità, li accende, li esalta, dice loro che s'ha ad amare non pure il bene di uno, ma di tutti, il prossimo nostro, come noi stessi. E tali idee erano favorite dal rovesciare le istituzioni politiche romane, e dall'abolire quindi la partizione di ordo e plebs. Cosi si avverava quella profonda sentenza storica, che la civiltà non pure è un lavoro unico, a cui concorrono molti, che non sanno l'uno dell'altro, ma eziandio è un lavoro fatto in gran parte da chi non sa e non vuole quello che fa. I barbari e il Cristianesimo giungeano per diverse vie alla medesima meta: trasformazione del Municipio in Comune. Dacché, abolito l'ordo dagli uni, sostituendo ad esso il parlamento o comizio degli uomini liberi, sollevati i servi dall'altro, tutti resi più o meno uguali per entrambi, ogni città non potea considerarsi, che come una ragunanza di persone sur un medesimo luogo, aventi interessi e diritti comuni. Come chiamavano essi un insieme di cose e di diritti? Universitas.
Ebbene, universitas si dissero. Anzi questa parola si trovò cosi acconcia ad indicare la società civile del Comune, che assolutamente presa non significava, che desso. Onde il Maffei (1), proprie universitas appellatur populus urbis, aut pagi, in quo non plurium hominum, sed plurium familiarum moltitudo consociata est. Ella era, dunque, populus, cioè tutto il numero dei consociati, senza distinzione di sorta, avendo tutti, come tali, eguali diritti: i cives romani eran finiti, e omnes incolae civitatis eran del pari cittadini.
Fu però, che i bona reipublicae, che abbiamo veduti innanzi; boschi, pascoli, corsi d'acqua, e via, spettanti nel dominio alla città, e nell'uso ai soli cives romani, si dissero bona communia, e servirono all'uso di tutta l'universitas incolarum. Di qui, la prima vera idea del demanio comunale, quale esso fu essenzialmente.
(1) Inst. jur. civ . neap. Vol. I. lib . III.
Fu progresso o regresso questo? Nella storia non si conosce regresso: essa è un continuo sillogismo, di cui le premesse son poste da un secolo, le conseguenze son tirate dall'altro. Col tempo, vecchie generazioni se ne vanno, giovani vengono; a desiderii seguono desiderii, ad aspirazioni altre aspirazioni, a bisogni altri bisogni, e sempre di nuovo a nuovo, di bene in meglio, con una forza irresistibile. La quale forza é essa, medesima il progresso, che trae l'uomo dall'imperfezione presente, per spingerlo a cercare quella perfezione ch'è nel suo pensiero, e che s'ei vede, non può giungere. E però, spinto da uno stimolo inconsapevole, ei s'affatica, si strugge, ma indarno: quella perfezione è troppo lungi da lui, non la raggiungerà mai. Ma se non la raggiungerà, le si avvicinerà sempre, perchè l'uomo, diritto egli medesimo, non fa che svolgere ed ampliare la sua personalità. E qual cieco nato non vede quest'ampliamento nel l'istituto del Comune? La parola stessa, sorta accanto all'altra, universitas, per indicare una società locale di uomini uguali, lo dice chiaro. Dapprima essa significò solo l'insieme de’ diritti, il patrimonio, e specie le terre destinate all'uso della universitas incolarum; dopo passò a significare anche l'universitas incolarum. Il Municipio non esistea, che per la conservazione dell'impero romano; il Comune esiste da se, proprio jure, come società naturale, non altrimenti che la famiglia e lo Stato. E tra l'uno e l'altro è tanta differenza, quanta è tra l'idea politica del primo, e l'idea civile del secondo, l'uguaglianza e la comunanza dei diritti degli abitanti della città. Idea, intorno a cui si aggrupparono tutti i progressi civili del mondo moderno; e per cui i Comuni italiani combatterono contro Federigo, che avrebbe voluto spegnerla. E combatterono da forti aspra e lunga lotta, e allora fecero la pace, quando col trattato di Costanza furono loro restituiti i diritti tolti nella dieta di Roncaglia. E mal si appone, chi tiene aver essi aspirato all'indipendenza, dove difesero solo la libertà civile. Anzi fu appunto in cosifatta lotta, che si manifestò, come altro carattere del Comune, il sentirsi parte di un organismo più alto e più comprensivo, che è lo Stato. E se nell'alta e nella media Italia, le città ebbero per poco un'accidentale autonomia, questo fu per la lontananza dell'imperatore, che indebolì e spense il vincolo di unione, per la mancanza di una forza moderatrice de' varii elementi sociali, e forse pel turbamento che venne da ciò all'idea civile. La quale al contrario, in queste provincie meridionali rifulse cosi chiara nella mente degli abitanti, da permettere lo stabilirsi di quella monarchia che ognuno sa; in cui il Comune si manifestò più specialmente come un istituto di mera amministrazione locale. Le vie pubbliche, l'uso delle acque pubbliche, la polizia urbana, la tutela del patrimonio e del demanio comunale son cose che toccano a lui, escluso qualunque carattere politico.
Onde l’acuto Turboli (1) dicea, Hodie Municipia exulant; et abusive civitates Municipia dixeris; e il Toscano (2) osservava, Syndicos, Electos, Nobiles civitatem regentes ab antiquis decurionibus ortos esse falso putarint, illorumque jura absurdissime his aptanda censuerunt, coloro che stimarono i magistrati comunali una continuazione de' municipali. Essi difatto erano cessati coi Longobardi, i quali, diviso il territorio in ducati, alla Curia sostituirono il parlamento, o assemblea; a ciascun comune preposero un rettore, economico e dicastico, detto sculteto, il quale convocava e presiedeva l'assemblea comunale, che col suffragio degli uomini liberi decideva i lievi affari civili e penali, celebrava i contratti che avean luogo, e provvedeva alle cose risguardanti l'interna amministrazione del paese. Nei comuni napoletani, agli sculteti successero i bajuli, ai bajuli i giudici e maestri giurati, e a questi, i sindici, distinguendosi, col variar de' nomi, a mano a mano , la parte economica dalla dicastica, in guisa da rimaner la prima sempre all'assemblea della comunanza, la seconda al Re o ai baroni. Il tipo fu perfezionato, ma non cangiato.
(1 Loc. cit. - Traduzione: oggi i Municipi non ci sono più, e le città sono nominate municipi abusivamente)
(2 Loc. cit.)
E qui, senz'altro, porrei fine a questo capo, se non mi fosse venuta fatta una osservazione, che non vo' tacere.
Che l'Italia abbia il primato sulle altre nazioni, io non son facile a credere: ciascuna ha le sue glorie: ma il certo si è, che come nell'antichità demmo il più compiuto modello dello Stato, e oggi, fondando uno Stato nazionale abbiamo aperto una nuova via, e attuato, i primi, il tipo dello Stato moderno; cosi eziandio nel medio evo mostrammo i primi, nella sua più grande pienezza, la idea del comune, che, trionfante, mutò il sistema politico e civile dell'Europa, fortificò il potere regio, e abbatté il feudalismo.