CAPO V. CONTINUAZIONE - Dei demanii comunali e dei diritti dei cittadini sovra di essi.

SOMMARIO - Il Comune, organismo perfetto e vivo, ha bisogno di una proprietà per adempiere i suoi fini - I bona publica dei Municipii romani si conservarono nei nostri Comuni distinti in patrimonium e domanium - Necessità di tale distinzione - Diritti dei cittadini su quest' ultimo - Come questi diritti, jura civitatis, fossero intesi presso di noi - Modificazione che subisce il feudo napoletano per la successione - E più per l'investitura - Ampiezza delle formole - Loro nullità - Il re non può concedere, che ciò che realmente possiede - Dalla inviolibilità dei jura civitatis, secondo la dottrina del giure del Regno, segue l'esclusione di ogni diritto dominicale del barone sugli uomini del feudo, e sul demanio comunale - Quanto a questo egli è considerato come cittadino, e ne ha l'uso - Mentre tale qualità gli vien negata, nelle altre cose riguardanti il Comune.

Il Comune, società naturale come lo Stato, di cui, secondo le parole di un valoroso scrittore, la sua personalità giuridica rifà e possiede in certo modo, quei medesimi caratteri e diritti che troviamo in esso, ha come lo Stato dei fini da compiere, e quindi, una proprietà a ciò ordinata. Questa proprietà è quella, che Pomponio, nel farci appunto conoscere, che ogni popolazione riunita in luogo abitato avea un territorio, diffinì, Universitas agrorum intra fines cujusque civitatis, (1) vale a dire, i campi, i boschi, i pascoli, che, non occupati da altri, sin dalle prime unioni delle famiglie, furono destinati a costituire il principal fondamento dei soccorsi indispensabili alla vita, quella stessa, su per giù, che formò i bona publica de' municipii romani, che abbiam veduto innanzi.

Codesti bona publica municipalia, poderi, colti, selve, pascoli, laghi, nei comuni di queste meridionali provincie, dove s'ha a stimar fortuna l'essere stati sino al mille, o giù di li, sotto la signoria dei Greci e dei Longobardi, si conservarono quasi tali quali: solo si determinarono con maggior precisione di linguaggio. Perchè di siffatti beni, alcuni, come gli agri vectigales, i praedia, si appartenevano al Municipio qual persona civile, capace di possedere non altrimenti, che un privato qualunque, e formavano quella parte di sua proprietà, che amministrata con certe leggi, serviva alla sua finanza e provvedeva ai pubblici servigi locali; altri invece, come le silvae, i pascua, e simili, si appartenevano a lui, quale pubblica persona, ma solo in proprietà, essendo l'uso dei particolari cittadini. Intanto, sebbene i Romani non li dicessero bona publica, che per distinguerli dai privati, pure i nostri acuti giuristi, osservando che tale comunanza di nome potea, se non altro, generar confusione, chiamarono la prima specie di proprietà, patrimonium, parola del dritto privato ; la seconda, domanium, parola del dritto pubblico, deputata a significare quei beni che il Principe possedeva in quanto Principe, e il cui godimento serviva ad tuendum dignitatis suae splendorem. Anzi, appunto per serbare a questa il carattere di pubblica proprietà, e sottrarla alle continue usurpazioni dei baroni, la dissero cosi, perchè dove del patrimonium, secondo nota il Turboli, (2) dominium et usus ad Populum, omniaque ejus individua spectant, del demanio invece la proprietà spetta alla nazione, e l'uso al re: la proprietà spetta al Comune, e l'uso a tutti i cittadini; i quali andavano su quei beni a far legne, a cuocere calce, a raccoglier ghiande o altre frutta, a pascolare animali etc.

(1) Leg. 239 ff de verb. sign.
(2) Op. cit.

Onde molto è a riprovare la confusione dei concetti di queste due maniere di proprietà, che si fa oggi, chiamando alla francese demanio dello Stato si quei beni, che, senza avere carattere pubblico, perché desso non può loro esser conferito dal servire all'utilità comune, profittano immediatamente allo Stato, e sui quali ei deve compiere quegli atti di proprietario che li rendono fruttiferi; e si quei beni, che per volontà della legge son destinati all'uso pubblico, cioè di tutti i cittadini, che ne hanno il godimento, conforme alla destinazione, e non sono proprietà per nessuno, neanche per lo Stato, e si dicono pubblici, appunto perchè non particolari a un solo o a pochi. Da questa confusione, che non è senza danno nè senza ingiustizia pei cittadıni e per lo Stato, bene spesso può nascere o l'abuso del potere da un lato a scapito dei leggittimi diritti dei popoli, ovvero dall'altro le usurpazioni dei privati verso lo Stato. Di fatto non è meno ingiusto e pericoloso il credere lo Stato o un Comune signore e proprietario assoluto della piazza pubblica o di una fontana, che mantenere in un abusivo possesso, credendolo legittimo, un privato proprietario di un pezzo di strada pubblica, o d'un corso d'acqua comune. (1) Solo una esatta distinzione fra cose e idee si diverse può far ravvisare nella pratica le conseguenze speciali amministrative e giuridiche dell'una e dell' altra natura di beni; e solo da essa nacque quella teoria dei jura civitatis per cui s' illustrò tanto il nostro foro e il nostro dritto.

I cittadini, come membri della civitas hanno de' diritti e sul patrimonio e sul demanio dell'università: ma sono questi diritti identici? No. Il precipuo obbietto del primo è l'entrata o il frutto, che se è deputato a provvedere a servigi di universale utilità, i cittadini non ne godono, che uti universitas, cioè come un'aggregazione di uomini, avente un insieme di diritti proprii a ciascuno. 

(1) Persico. Dirit. Amm. Vol. II.

Il precipuo obbietto del secondo, al contrario, é l'uso pubblico: tale n'è il carattere giuridico, e il cittadino, al dir di Donello, sibi suoque jure privatim locis publicis uti potest. Ne il Comune, che lo possiede soltanto a questo titulo, può scacciarnelo; perchè se potesse, quello sarebbe sua proprietà privata. L'essenza della proprietà pubblica è nel non poter esser posseduta da nessuno a titolo privato, e nel diritto che ogni cittadino ha di usarne. E poichè questo diritto gli viene dalla sua qualità pubblica di cittadino, é diretto e dominicale. Onde la conclusione, che i cittadini sul patrimonio han diritto uti universi, non uti singuli, e sul demanio uti singuli, non uti universi. Del primo, essi sempre, in fondo, si giovano, ma solo la loro universalità, rappresentata dal Comune, ne ha il possesso e la disposizione esclusiva; del secondo, invece, dal Comune non è tenuto in conto, che l'uso e la destinazione, e vi hanno su un diritto proprio.

Ognuno nasce investito dei jura civitatis in potenza, perchè ognuno, come uomo, nasce investito dei diritti alla conservazione e al perfezionamento fisico e morale. Diritti inviolabili, i quali il Principe non può togliere, (1) dacché gli stessi diritti umani Iddio distribuì all'umanità per mezzo degl’imperatori e dei re (2). E quantunque la potestà imperiale sia somma, e possa tutto, nondimeno non può ciò che é illecito e offende la sua autorità la sua onestà, il buon costume. Il re non può se non ciò che giustamente può, (3) perocchè essi furono ordinati a serbar la giustizia, di cui sono custodi, ministri e interpreti, e a guardare i

(1) Andrea d'Isernia. Comm. ad Const reg. - Princeps tollere non potest.
(2) Marino Caramanico. Proem. ad Const. reg. - Ipsa jura humana per imperatores et reges saeculi Deus distribuit humeno generi.
(3) Tapia. Iure civ. neap. - Etsi imperialis potestas summa sit, ac omnia possit, non tamen ea potest, quae illicita sunt, quaeve suae laedunt authoritatem, honestatem, et bonos mores... Princeps enim non potest, quod juste facere non potest.

loro sudditi dalle altrui insidie (1). Onde il re quando iniuriose agit non est rex (2), e i suoi atti nulla sunt etiamsi non revocet, (3) e il cittadino non è tenuto ad osservarli, perché tunc non est inobediens regi, qui in tali actu non est rex. Posteriore al popolo, quod ab initio antea fuerunt populi, quam reges, (4) egli quando non fa giustizia, non ha ragione di essere.

Ecco il jus civitatis non pure accostato al diritto naturale, ma messo come esistente da se, anzi anche prima della suprema potestà civile. E tale dottrina, che penetrando in tutti gl'istituti, formava quasi il fondamento giuridico della monarchia napolitana, fece si, che qui il feudalesimo non distruggesse mai, come altrove, i diritti dei cittadini raccolti in Comune, ma fosse indebolito e distrutto da essi.

Il feudo, che nelle provincie settentrionali d'Italia, per esempio, fu in certo modo accrescimento del dono fatto dal Principe, che di precario e temporaneo che era innanzi, lo rese a mano a mano patrimoniale o perpetuo; nelle provincie nostre al contrario fu uno scemamento del dono, perocchè: il Principe ordinò i feudi ritraendo nuovamente a se l'alto dominio di quello che i suoi predecessori aveano già donato in allodio, col costituire quel genere medio tra il feudo e l'allodio, che i nostri scrittori chiamano ereditario misto, che a torto spiacque tanto al Rosenthal e ad altri feudisti d'oltremonte, ed è una delle maggiori glorie della giurisprudenza patria. La quale mansuefece in certo modo l'indole selvaggia dei feudi, accostandoli, quanto comportavano i tempi, al diritto comune, senza danno della regalia.

(1) Id. Ibid. - Ad justitiam enim servandam Reges sunt constituti, et ut subditos ab aliorum insidiis tueantur, et custodes recti, ac Iustitiae ministri et interpretes sint.
(2) Andrea d'Iser. Op cit.
(3) Id. Ibid.
(4) Rovito. Ad pragm. I. de salario.

Nei feudi ereditarii misti, il Principe reputavasi aver donato con un atto solo a tutti, a condizione che il suo dono fosse trasmesso secondo le regole del dritto comune (1). Quindi la successio retrograda, la quasi retrograda, e quella delle donne.

(1) Savarese. Loc. cit.

Ma se la riforma della successione, e le mille gravi conseguenze contrarie ai feudi, che i nostri sottili giureconsulti trassero dall'averli tinti del colore dell'allodio, fu un gran passo innanzi; quello che dette al nostro sistema feudale una fisonomia tutta sua, e tocca propriamente ai jura civitatis, è l'investitura, cioè il conferimento del possesso del feudo. In che essa consisteva?

Il 28 novembre 1504 Ferdinando il Cattolico concedeva a Prospero Colonna in recompensam, et satisfactionem servitiorum ipsius Prosperi, molte terre, e tra le altre il Comitatum Morconi, cum suis Castris seu Fortellitiis, villis, hominibus, Vaxallis, Vaxallorumque redditibus, feudis quaternatis, et inquaternatis, feudatariis et subfeudatariis omnibus, possessionibus, Vineis, Olivetis, Castagnetis, hortis, terris cultis, et incultis, Montibus, planis, Silvis, fidis, diffidis; Molendinis, Bactinderiis, Trappetis, Venationibus, defensis, forestis, passagiis, Gabellis, Dohanis, plateariis, seu plateis, scandagiis, juribus, dirictibus, bajulationibus, et banco iustitiae, et cognitione primarum, et secundarum causarum Civilium, et Criminalium, atque mixtarum, aliisque juribus, jurisdictionibus, actionibus, utilique dominio ad dictas Terras, Castra, et loca quomodolibet spectantibus, et pertinentibus, tam de jure, quam de consuetudine; et caetera, et caetera, et caetera per un'altra lunghissima pagina, perché noi siamo stanchi di copiare. Or chi legge prima questa concessione, e poi le parole del Pecchia, che nella Monarchia Siciliana fin dai tempi di Re Ruggiero non eravi servitù personale; che qui non v'erano manimorte, e perciò niun barone, nè chiesa alcuna avea diritto sull'altrui retaggio, nè per mobili, nè per immobili; nè al fisco competea, che la successione nei beni vacanti; che i vassalli baronali possessori di liberi allodi, altro non dovevano ai loro utili padroni, che gli aiutorii urgente necessitate; che tra i villani pochissimi erano ascrittizii, e servi della gleba, nè costoro regnicoli (1); chi leggerà, dico, prima quella concessione, e poi queste parole, domanderà a sè stesso: Ma a cui io debbo dar fede? E forse non potrebbe uscire dell'apparente contraddizione, se non ricordasse, ciò che anche noi ricorderemo ai nostri lettori.

In ogni rivoluzione, il primo pensiero dei rivoltosi è quello di togliere la memoria di quanto possa loro nuocere; quindi gli eccidii, gl'incendii de' pubblici archivii, e via. Nella rivoluzione successa regnante Guglielmo il Malo, il primo pensiero della nobiltà congiurata fu di distruggere i defetarii, di cui abbiam  fatto cenno innanzi, o registri contenenti il catasto delle università, i quaderni delle concessioni feudali, e il cedolario di tutti i pesi fiscali. Furono rifatti, dopo, tali registri, è vero, ma imperfettamente; e si può affermare, che i feudi nostri non hanno mai avuto una tavola, ossia uno stato certo delle parti onde si componevano e dei diritti che erano loro uniti: tutto si riduceva all'uso e al possesso. «La verbosità de' tempi, dice Winspeare, ne'quali si fissò lo stile delle nostre cancellerie, e l'esempio delle concessioni e delle vendite dei feudi preso dal diritto comune, affinchè l'atto contenesse la pienissima traslazione del dominio, fecero adottare formolarii amplissimi, pei quali il re trasferiva tutto ciò che la natura e l'arte avea raccolto sul territorio conceduto. Una giusta regola d'interpretazione diffinì gli effetti di queste concessioni, e gli ridusse a quello che di stile solea cadere nelle concessioni, e a quello che di fatto il Sovrano vi possedea» (1). Onde Orazio Montano afferma, che le clausole cum planis, montibus, pascuis, nemoribus, aquis et decursibus aquarum etc., anche apposte nella investitura non approdano a nulla, e non possono esser produttive di effetti, se non per ciò che al tempo della concessione sia presso del concedente, o, a giusto titolo, presso del precedente barone.

(1) Stor. Civ. §. XIII.
(1) Loc. cit.

E come i diritti dei cittadini non erano presso di nessuno, ma stavano da se, nè piu e ne meno di quelli del Sovrano, anzi ancor prima di lui, cosi seguiva, che nella concessione del feudo essi dovessero essere pienamente rispettati. (1) Di che le controversie fra i nostri interpreti, se, concesso il luogo abitato, cum pascuis pratis, nemoribus etc., quei territorii dovessero tenersi concessi al barone quoad dominium, ovvero soltanto quoad jurisdictionem; e la comune sentenza, che la concessione dovesse ritenersi fatta soltanto quoad jurisdictionem (2). E il barone dovea portarsi verso i suoi vassalli non da tiranno, ma con
amore e affetto paterno, si perchè la religione non volea che fossero in verun modo aggravati angariati conculcati i poveri amati da Cristo, e raccomandati come la propria persona; si perchè, ciò facendo, avrebbero causato maggior danno a sè stessi, non pure per gli odii e rancori che concitano le oppressioni, ma anche perché la povertà dei vassalli avrebbe avuto un contraccolpo sul barone medesimo (3). Inoltre, per la medesima causa, per cui era escluso ogni diritto dominicale del barone sugli uomini del feudo, era eziandio escluso dalla concessione il Demanio comunale; dacchè in niuna maniera poteva esser pregiudicato quel diritto primitivo, il quale, prima della concessione del luogo abitato, era presso tutti i cittadini, affinchè usassero di quelle terre a loro comune utilità, per le cose necessarie alla vita. 

(1) De Regalibus. - Clausolae hae, cum Planis, Montibus, Pascuis, Ne moribus, Aquis et decursibus aquarum, et appositae in Investitura, nihil operantur, nisi quatenus tempore concessionis, fuerint penes concedentem, vel justo titulo penes praecedentem Baronem.
(2) D'Andrea - Non levis est centroversia inter juris nostri Interpretes, an concesso Oppido cum pascuis, pratis, nemoribus etc. dicantur ea territoria concessa baroni quoad dominium, an vero solummodo quoad jurisdictionem. In qua quaestione communis est sententia ut concessi intelligatur solummodo quoad jurisdictionem.
(3) Cervellini. Direz. dell'Università. Cap. XVIII. - Papa. Decisiones - Baro tamquam pater reputatur. - D'Andrea – Baro omnium in universali, et particulari curam habere debet, et uti pastor gregem sibi traditum custodire, offensum, oppressumque defendere, et in hoc tacitum a jure mandatum habet superiorem adeundi: ita vassallus tamquam filius Baroni obsequium, et adiutorum, et uti libertus patroni, praestare tenetur.

Codesto diritto, competente ai cittadini, di usare del demanio è proprio di ciascuna università, jure naturali, e perciò non le può esser tolto neanche dal re. Il quale, quando concede altrui una terra cum suis juribus, pratis, ne moribus, pascuis etc., com'è d'ordinario, quantunque soglia dir si il dominio di tali territorii esser passato al barone, pure ciò non è, perchè non può sostenersi, che il re con quella concessione abbia voluto manomettere il diritto dei cittadini sui medesimi, dovendo sempre la stessa concessione intendersi, salvo jure alterius (1). Lo stesso re, quindi, che allora riassumeva in se i poteri dello Stato, la legge, rimaneva fuori di quel diritto, poiché la legge non può torre all'uomo i diritti insiti in lui; mentre, d'altra parte, da tempi remotissimi, la proprietà e il godimento di quei fondi eran presso l'universalità de' cittadini, di cui niun mai, nè Greci, nè Longobardi, nè Normanni l'aveano mai spogliata.

(1) D'Andrea - Nullo modo praetendi posse esse praejudicatum primaevo illi juri, quod antequam oppidum concederetur, erat penes omnes cives, ut agris illis uterentur in comunem ipsorum utilitatem pro omnibus iis, quae ad humanae vitae usum sunt necessaria. Nam cum primum ex communi gentium jure, fuerunt institutae certae Urbes et Villae, quae alio vocabulo a nostris Doctoribus appellantur collegia juris Gentium, fuerunt illis termini impositi, quibus distinguerentur agri ad unamquamque Civitatem pertinentes. Omne illud territorium, quod intra eosdem limites erat comprehensum, censebatur assignatum ejusdem Urbis habitatoribus, ut eo uterentur in communem omnium utilitatem... Ius istud, quod uniuscujusque Universitatis civibus competit, ut agro publico utantur, est proprium ejusdem universitatis, jure naturali, adeo ut nec per regem ei tolli possit.... Unde cum Rex concedit alicui oppidum cum suis juribus, Pratis, Nemoribus, Pascuis etc., ut vulgo concedi solent; quantumvis dicere vellemus,dominium illorum fuisse translatum in Baronem....: non ideo tamen praetendi posset, Principem ex ea concessione voluisse derogare juri Civium super jisdem territoriis, cum semper concessio intelligenda sit, salvo jure alterius.

E «in un tempo, nota il Persico, che i signori feudali aveano in Europa invaso ogni cosa e assoggettato al loro dominio anche le strade, i ponti ed i fiumi, non era lieve conquista di diritto in pro della cittadinanza questo demanio comunale sottratto ai baroni e lasciato al godimento dei cittadini» (1). Il qual godimento loro spettava, secondo il nostro giure, anzi come uomini, che come cittadini.

Il cittadino noi si considerava, a dir cosi, obbiettivamente, ossia quale obbietto partecipe della generale essenza ed efficienza umana, avente un fine da compiere, perché l'uomo è fine in se e per se. Di qui il dovere e il diritto di provvedere alla propria conservazione. Dovere e diritto, onde chi lo disturbasse si renderebbe reo di lesa legge morale, che comanda a tutti di riconoscere gli esseri nella loro essenza ed efficienza finale.

Nè poteva tale diritto esser tolto o stremato senza il consenso dei cittadini, giusta l'osservazione del Fimiori: Non enim praesumitur princeps, castro in feudum dato, voluisse usum eorum, quae ad cives naturali ratione spectant, sine ipsorum consensu auferre aut imminuere.

E questo consenso dovea esser dato da tutti, nessuno eccettuato, perché devesi approvare da tutti, ciò che tutti riguarda. Principio di eterna ragione, di diritto positivo, e di secolari tra dizioni: sottilissimo ripiego, perché non fosse rinunziato a diritti; cui l'uomo stesso non può rinunziare; dacchè, come non è materialmente possibile la perfetta unanimità di una comunanza, cosi non è moralmente possibile la rinunzia al diritto della propria conservazione.

I jura civitatis erano troppo sacri, da potere essere violati da chicchessia. Essi, derivanti dalla natura umana, riposta tutta nella mentalità e nell'animalità, sono da rispettare, come lei. E però, se il re non potea dare in feudo il demanio comunale, il barone non vi avea su altro diritto, che quello che gli veniva dal partecipare al jus civitatis incolarum; perchè i nostri dottori soleano tenere il barone tamquam civis in suo feudo; onde a lui l'uso del demanio comunale eadem ratione, ac quilibet ex civibus (2).

(1) Op. cit.
(2) De Luca. De servit, disc. XLII. Antiquitus attento jure naturali, seu gentium primaevo, cognita non erant dominia, sed omnia erant communia, et poenes populum, qui postmodum ejus jura in Principem, seu Dominum, transtulit tanquam in Reipublicae administratorem, seu maritum, unde propterea tria resultant hujusmodi usum inducentia; Primo nempe, quod facta concesione alicujus juris, intelligitur in eo, quod excedit proprium usum, cum improbabile sit populum cum hujusmodi concessione voluisse privare se eo usu, sine quo vivere non posset; Secundo quia si Princeps seu Dominus reputatur tanquam maritus possidens hujusmodi jura tanquam dotem sibi a republica datam, ferre teneretur onera matrimonii, atque ex dotis fructibus alimenta necessaria praebere uxori, quae consistere dicuntur in populi protectione, defensione, recta administratione, et ut elementis necessariis non priventur, neque inermem et infelicem vitam ducere cogantur... Et in tertio demum, quia si Princeps, vel Dominus inferior a Principe causam habens hujusmodi bona, et jura possidet ex concessione et liberalitate populi, manifestam committeret ingratitudinem donatori denegando necessaria.

E di esso dovea valersi in guisa, da soddisfare solamente alla sua commodità, e non da scacciare, nè impedire i vassalli: dovea, in altri termini, usarne tanquam civis, non tanquam Baro (1). E falsa è stimata l'opinione del Capobianco, che il barone sia da avere, come due dei cittadini più ricchi, perocchè, se ciò fosse, nihil quidquam relinquetur caeteris in bonis demanialibus (2). Nè tale diritto egli potea vendere, locare, o altrimente cedere, perché esso gli veniva dalla qualità di cittadino, a civilitate, quae est personalissima. E codesta qualità di cittadino, che egli volea dove fosse vantaggio, avria dovuto avere anche dove non fosse, e soddisfare tanquam ditior ex civibus ai pesi del Comune. Ma poiché in fatto, ciò non era, i nostri giuristi gliela restrinsero solo quanto all'uso del demanio. Uso a cui se egli non rinunziava mai, l'Università potea opporre impedimento ad solvendum aes alienum ex pubblica necessitate (3). In tutto il resto il barone non si reputando cittadino, non potea partecipare agli altri dritti e privilegi di quelli; salvo che nell'investitura fosse la clausola, in omnibus reputetur primus civis, il che non accadea di frequente (4).

Cosi intesi i jura civitatis, presso di noi, non pure fronteggiavano, ma soverchiavano il feudo e davano origine agli usi civici.

(1) La prammatica XII de Baronibus, che provvede a ciò, ha queste parole: Volumus etiam, ut ipsi Barones, et alii utiles Domini terris, et ne moribus, vel de demanio moderate utantur, et quamvis, ut primi cives, civium privilegiis, et bonis uti possunt, debent taliter, ut suis commoditatibus, satisfiant, et vassalli pascuis, nemoribus, et cultura non arcentur.
(2) Rapolla. Comm. de jure Reg. neap. lib. I. Cap. IX.
(3) Novario. De Vassall. grav. Grav. 31 Tom. I.
(4) Lupoli. Praelect. jur. neap. Tom. I.