CAPO VI. Degli usi civici e dei demanii feudali

SOMMARIO - Necessità di conoscere la dottrina dei jura civitatis, secondo il diritto napoletano, per conoscere la dottrina degli usi civici - I quali derivando dalla inviolabilità di quelli, erano anch'essi inviolabili - Errano quindi coloro che li mettono fra gli atti facoltativi - Essi costituiscono un jus in re - Quando i baroni li avessero vietati, i cittadini poteano resistere per forza - Loro diversità dalla colonia perpetua - Loro natura - Loro estensione non oltre l'uso proprio necessario - Come nelle controversie si solessero eleggere degli esperti - Appunto, perché uso e diritto personale, non si potea nè vendere, nè locare, nè in altro modo cedere a chicchessia - Nè ricevere animali altri a soccida - Gli animali vaccini godeano dei privilegi - Non sono da confondere gli usi civici, con la universale consuetudine di pascolare sui fondi aperti, raccolti i frutti e le messi - La quale, riposta nel libero volere dei proprietarii, finisce col chiudere i fondi - Dove degli usi civici non è cosi.

Potrà parere ad alcuno di esserci allargati un po' troppo nei capi precedenti, e di aver ciò fatto anzi per vana pompa di facile sapere, che per utilità del lavoro. E se ciò fosse, noi pregheremmo questo signore di credere solo alla seconda ragione, aggiungendo, che non pure è stato per utilità, ma per necessità.

Ed invero, senza adeguata notizia della nostra proprietà comunale, e senza chiara e precisa idea del come noi concepivamo il cittadino e i iura civitatis, stimiamo non si potere intendere la dottrina degli usi civici, i quali derivano immediatamente dalla inviolabilità di questi. Perché, se le leggi della natura sono più ampie e prima delle umane; se esse danno all'uomo, e quindi al cittadino, alcuni diritti assoluti e incondizionati, o inalienabili, tra cui quello di vivere e nutrire il suo corpo, e di usare per conseguenza di tutte le cose che lo circondano; se a tali leggi s'ha ad ispirare la giustizia, è manifesto, che si quando sul feudo sorgano villaggi, che appunto però non hanno beni di sorta, si quando a un Comune non basta il suo demanio comunale, è manifesto ripeto, che e nell'un caso e nell'altro gli abitanti debbano potere usare delle terre del feudo. Di qui la massima, dove son feudi, ivi sono usi; e il nome di demanii feudali alle terre del feudo (nemora, montes, pascua) soggette agli usi civici.

Questi, dunque, spettavano ai cittadini jure gentium, come uomini, dacchè assurdo e iniquo sarebbe, che per esser cittadino, si debba cessare di essere uomo, e non poteano loro esser tolti neanche dal re. Come al re non era dato di espellere del regno i suoi sudditi, cosi non gli era dato nemmeno di privarli delle cose necessarie alla vita, di cui semprecché li avesse privati, li avrebbe costretti a migrare altrove (1). Gli elementi naturali erano loro dovuti e per non menare una vita di privazioni e di stenti, e per non esser misurati alla stessa stregua che i forestieri, in quel medesimo luogo che abitavano e sostenevano i pesi (2). E se il re abbia concessa la terra cum montibus, et planis, et pascuis etc., non intelligitur abstulisse commoditates Vassallorum, perchè l'uso civico s'intende sempre eccettuato. 

(1) F. D'Andrea. Loc. cit.
(2) M. Freccia. De Subf. Lib. II aucth. 46, Debent Vassalli habere naturalia elementa, ne ipsi inermem vitam ducant, et in eo loco in quo habitant, et onera sustinent, aequaliter cum exteris comparentur.

Esso è tanto insito al feudo, che se anche la concessione si facesse libera da ogni e qualunque peso, non si estenderebbe giammai a quello, a fine di non torre ai vassalli il vivere (1); perchè non si può concepire un aggregato di uomini, in certo sito, senza diritto ad usare delle acque per dissetarsi, a tagliar legna per riscaldarsi, a pascer gli animali nei luoghi incolti, e via. Per ampio che sia il privilegio, il diritto dei terzi non potrà mai essere pregiudicato, nè è a presumere, che il re l' abbia voluto (2). E se il venditore del feudo l'abbia venduto per libero, e siasi obbligato all’evizione verso il compratore, a questa non è mai tenuto per l'uso civico, il quale non è un peso imposto da convenzione o da prescrizione, si è una qualità intrinseca (3). La parola libere non include l'onus naturale, quod inest rei, e non esclude l'eccezione proveniente ex natura actus et subjecta materia. Onde, quantunque la concessione delle montagne e delle acque sit libera et absque onere servitutis, non potest excludi illa veniens ex natura rei, et victu naturali tali modo, ut sententia declarans illas liberas a servitute minime comprehendat usum Civium, qui non jure servitutis, sed dictus petitur (4). Anzi codesto uso non importa servitù, ma peso intrinseco e connaturale, sicchè la cosa non è, nè potrebbe essere diversamente (5). Mal si appone, quindi, l'egregio sig. Lomonaco (6) nel ritenere i diritti civici, facoltati, o sia concessi, o tollerati per lunga pezza per consentimento espresso o tacito dei baroni o altri possessori di latifondi; 

(1) Capobianco, Pramm. II de Baronibus. Et iste usus dicitur naturaliter feudo, etiamsi concessio esset facta liberissima ab omni onere, et servitute. Nam non intelligitur de isto usu Civibus debito, cum sine ipso Vassalli inermem vitam agerent.
(2) Rovito. Progm. I. de salario.
(3) De Luca, De feudis. Disc. 65.
(4) Novario. Op. cit. Tom. 3, Grav. 77.
(5) De Luca. De Servit. Disc. 42. Etiamsi Baroniper Principem expresse concessum esset feudum liberum et exemptum ab amni onere, et servitute, adhuc tamen intelligitur exceptus iste usus, qui non importat servitutem, sed onus intrinsecum et connaturale.
(6) Studii Stor- leg. sul sistema delle azioni posses.

e non già, diritti esistenti da se, come diritti primitivi assoluti inviolabili del pari che ogni altro diritto di natura, e però anteriori non solo al barone, ma anche al re, al quale i popoli se, come ad amministratore della repubblica, concederono i propri diritti che vantavano sulle terre da loro i primi occupate, intesero di sicuro fatto salvo il proprio uso, senza cui non avrebbero potuto vivere (6). Di guisa che, come i diritti del re derivano da quelli dei popoli, ed egli non può concedere, se non quello che eccede quest'uso, cosi i baroni debbono il medesimo non permettere, ma rispettare. Si permette ciò solo, che può eziandio proibirsi, ma gli usi civici non poteansi in alcun modo proibire. Se essi non erano propriamente un diritto dominicale, come quello che i cittadini aveano sul demanio universale, erano però la partecipazione di essi col barone al demanio feudale, partecipazione che avea tale carattere e importanza, da costituire un jus in re; tanto vero, che era vietato ai baroni di formare su queste terre le, cosi dette, difese (1), cioè chiudere il fondo per escluderne i cittadini dal godimento. Per ciò fare avrebbero dovuto mostrare il privilegio di aver ricevute quelle in defensam, il che avea luogo juxta et rationabili causa, e quando i cittadini non fossero menomamente pregiudicati (2); stando per essi la presunzione del diritto, nel dubbio erano mantenuti nel possesso (3). 

(6) De Luca, Ibid.
(1) De Rosa, Civ. Decret. Praxis. Cap. X, N. 57. Defensae ex eo non cupantur, quod in hujusmodi territoriis existant custodes, qui ea defendunt non solum expellendo animalia, sed introducta sine dominorum placitu pignorando pro poena, ipsa scilicet locorum bajulis, seu dominis tradende, unde per eos illati damni restauratio subsequatur.... Alia nomenclatione Bannitae appellantur, ex Bannis nimirum, quae hac super re habente jurisdictionem indicuntur... Poenam hujusce controventionis Diffidam vocant.
(2) Id. Ibid.
(3) Novario. Op. cit. Tom. I. Grav. 32. Nisi Barones in hujusmodi de manialibus ostenderint privilegium, quod illa habeant in defensam, Cives sunt manutendi in possessione pasculandi, cum in dubio jus pascendi herbas, glandes, et spicas, Universitatis praesumatur.

Nė poteano quelli trarre pro dal rinunziare, tacitamente o espressamente, all'uso del demanio comunale o universale per proibire poi a, costoro l'esercizio de' loro diritti nei demanii del feudo. Perocchè sebbene il barone e i cittadini erano tanquam socii in demaniis, pure nessuno dei due potea impedire l'uso dell'altro. Se i cittadini, astenendosi dall'esercitare i loro diritti nei demanii del feudo, avessero potuto denegare l'uso civico al barone, e se al barone, non usando del demanio universale, fosse stato lecito proibire ai cittadini il godimento dei demanii del feudo, sarebbe nata gran confusione (1), e sarebbe venuta meno quella reciprocità che avea ad essere fra di loro. Nè tale diritto spettava soltanto ai cittadini naturali, ma eziandio receptis in tales, purché avessero abitato non meno di un decennio nelle terre del feudo. E quando gli utili signori avessero voluto proibirlo, quelli non pure ne erano gravati, ma poteano resistere per forza, e se per avventura vi fosse stata pena, non eran tenuti a pagarla (2).

Di qui è ben manifesto, quanto vadano errati coloro i quali confondono gli usi civici e la colonia perpetua. Se questa procede anche ex jure civico et naturali, rappresenta nondimeno i diritti degl'indigini precedenti alla infeudazione, e la ragione di quelli, che col proprio sudore vennero fecondando terre deserte e incolte, dando loro col lavoro un valore che non aveano, ed assicurando al padrone del feudo un utile proporzionato, che egli preferiva alle cure ed alle eventualità di un dissodamento o di una raccolta. Essa era un tacito contratto fra il coltivatore e il feudatario, onde l’aforismo, Licet civibus arare et serere in demanialibus feudi, soluta decima, vel terratico in beneficium Baronis; o la costante giurisprudenza dei nostri antichi tribunali di attribuire al colono la perpetuità, quando per un decennio avesse coltivato lo stesso fondo feudale.

(1) Id. Ibid.
(2) Novario Ibid. Possunt de facto resistere; neque, existente forsitan banno poenali, solvere tenentur poenam.

Ora in che consisteva quest' uso? Ecco. Il jus civitatis che entra nella personalità giuridica del cittadino, e però nel suo universum jus, si effettua, tra gli altri modi, usando del demanio feudale; e usandone o volta per volta e in determinati tempi, come, il raccogliere le spighe, le ghiande, e simili; o anche volta per volta, ma sempre che se ne sentisse bisogno e voglia, come l'attinger l'acqua, il pascolare, il tagliar le legna da ardare, il cuocere la calce; o stabilmente sopra tale o tale altra parte del demanio, come, il coltivare certa porzione di terra, il costruire in un luogo il ricovero. Di qui apparisce gli usi civici consistere nel diritto di raccogliere e pascere le erbe, le ghiande, le spighe, di acquare, pernottare, farsi il ricovero, tagliare le legne, cuocere la calce, e seminare. Non in tutte parti però erano gli stessi, per numero, mentre sembra, più o meno, essere stati per estensione. Difatti i giuristi quasi concordemente dicono quest'uso, usus necessarius, e tal necessità è da intendere rispetto a tutte le cose bisognevoli al vitto dell'uomo, si che avendo animali, e mancando di frumento o di vino, con l'industria di quelli, tenuti nel demanio, possa provvedere al frumento e al vino (1). Ma ciò sempre entro certi limiti, moderate, e solo pro uso domus et familiae (2), per non togliere al barone il diritto di affidare nel suo territorio quel che eccedesse l'uso medesimo (3), e per impedire quest'altra conseguenza. 

(1) De Franchis. Decisiones S. R. C. Decis. 489. - Respectu omnium necessariorum pro victu hominis, ita ut si habeam animalia, et deficit mihi frumentum vel vinum, possum tenere in demanio animalia, ex quorum industria, etiam vendendo exteris, possim emere frumentum, et vinum.
(2) lacovetti. Add. ad Gravam. 31. Tom. I.
(3) L. Ricci. Praxis Civ. Tom. 3. Cap. IV. Fida animalium dicitur, quod fide Domini nixa ad alienas recipiantur, ac pascantur animalia, quae alias expellerentur. Datur exinde pretium fidae, quae non potest exigi ultra modum solitum, et censuetum. Diffidare idem est ac bannire. In territoriis diffidatis animalia capta poenam diffidae solvunt, et e contra animalia fidata, scilicet admissa in pascua sub fide Domini solvant fidam.
Lungamente si agitò la quistione, se il barone avesse il diritto di fida in tutto il territorio, anche non demaniale, del feudo, e se potesse fidare noi territorii aperti e ne' campi de' cittadini, dopo mietuto, ma fu deciso di no. Vedi Ricci. Ivi. N. 31.

Se i cittadini avessero potuto usare del demanio feudale oltre quel che loro fosse bastato, si sarebbe detto, essi avervi sopra una servitù non per diritto del feudo, ma per un certo diritto libero, che concernendo una diminuzione della cosa feudale, era espressamente proibito; non si potendo questa da nessuno, senza legale titolo, come libera, nè alienare, nè possedere, nè prescrivere. E però, i cittadini che pretendevano di avere nel demanio feudale il diritto di pascere, far legne, etc. oltre il proprio uso, dovevano mostrare il privilegio, o la prescrizione immemorabile (1), cioè il pacifico non interrotto possesso di cento anni, da contare o dal tempo della lite mossa, andando indietro, o venendo innanzi, sino al tempo della lite mossa: seguentemente tanto s'intendea prescritto, quanto si era posseduto, e non altro.

Di tutti i diritti riportati di sopra il principale era il diritto di pascolo, che traeva seco quello di attinger l'acqua, pernottare, farsi il ricovero, e tagliar legna (2). A mantenerlo integralmente, si soleano eleggere degli esperti, che osservata la quantità degli animali dei cittadini, e la estensione del demanio, giudicassero a quanti capi di animali potesse bastare l'erba; affinchè tolto l'uso civico il barone fosse libero di locare il resto, senza pregiudizio di alcuno. E quando fra barone e cittadini fosse di ciò controversia, il S. R. Consiglio solea delegare la R. Dogana di Puglia, perchè mandasse dei periti, che facessero, per sua norma, minuta relazione (3).

(1) Rovito. Consilia. lib. 2. Tom. 3. Cap. VII. Universitatas praetendens jus pascendi, et lignandi ultra usum in demanialibus Baroni, debet ostendere privilegium, vel praescriptionem talem, quae vim privilegii habeat, scilicet immemorialem.
(2) Ricci. Ibid. Tom. 3. Cum jure pascendi includitur jus aquandi, pernoctandi, faciendi tugurium, et lignandi.
(3) Novario. Op. cit. Tom. I. Grav. 38. Civium enim commoditas est in spicienda, et ideo solent eligi Experti, qui arbitrantur quot animalia possunt commode pascua sumere in Territorio in quo jus fidandi habent Barones; qui quidem debent respicere quantitatem Animalium possessam a Civibus, ad finem, ut deinde in eo, quod superest usque ad sufficientiam herbagii, possint animalia exterorum affidari... Quare Sacrum Regium Consilium, ubi sunt hujusmodi differentiae solet, delegare Regiae Dohanae Menepecudum Apuleae, ut mittat Expertos in loco, in quo est controversia, ad finem faciendi relationem distinctam, ut juxta illam se regolare possit. A judicio enim Peritorum in arte, Iudices se remonere non debent.

E appunto perché del demanio feudale si godea l'uso e non l'usufrutto, seguiva, che un cittadino non potea nè vendere, nė cedere gratuitamente, nè affittare ad alcuno la porzione che gli toccava per sua commodità (1). Essendo un diritto personale, dipendente dalla qualità di cittadino che è personalissima, esso non si può cedere, perchè i privilegi personali non si trasmettono (2). Oltre di che, se ciò non era permesso al barone nel demanio del Comune, non dovea essere nemmeno permesso ai vassalli in quello del feudo (3). Nè si potea pigliare a soccida animali di coloro che non fossero stati cittadini, ponendovi solo la propria industria e la custodia; perchè il socio non può comunicare all'altro socio il suo diritto, e si ammetterebbe nella comunione dell'uso chi non si dee (4). E per molto si è dubitato fra i dottori, se tale uso civico si dovesse intendere ristretto ai soli animali necessarii per la coltura e pel vitto, o esteso anche agli animali per la industria e la mercatura; o secondo la diversa specie, s'è data diversa sentenza.

(1) Habens enim usum alicujus rei nequit altero concedere vendendo, locando, cedendo.
(2) Novario. Op. cit. Cum istud jus sit personale, dependens a civilitate quae est personalissirna, non potest cedi, cum personam non transgrediantur privilegia personalia.
(3) Iacovetti. grav. 31. Tom. I. Vassallorum juri in demanialibus Feudi aequatur omnino jus Baronis in demanialibus Universitatis, ac proinde si Vassallis est limitatum, ita et Baroni. Ideo tamen locatio, cessio, aut venditio juris pascendi prohibetur, quia et Cives, et Baro usum in pascuis demanialibus habent, non usufructum, quapropter tanquam usuarii illis tantum moderate uti possunt.
(4) De Luca. De Servit. Disc. 40.

Servendo però gli animali vaccini al necessario uso dell'agricoltura, si son loro conceduti molti privilegi (1).

Ora questi usi, cosi intesi, sono propri del giure napoletano e non s'hanno da confondere con quella generale consuetudine totius mundi, di cui fanno parola il Cardinal De Luca, il Rovito, il Galluppi, l'Anna, ed altri giuristi; perocchè questa non si estendea, che al pascolo, ed ha carattere privato, piuttostoché pubblico. Era una consuetudine, fiorente massime dove mancava il pascolo pubblico, e fondata meno sui jura civitatis, che sulla scambievole tolleranza, e sull'adagio, che sia da permettere agli altri quello che a noi non nuoce, e agli altri giova. Difatto, che nocumento può recare il pascere di animali in un campo aperto, dove siano stati raccolti i frutti, e mietute le messi? Gran vantaggio al contrario, n'ha il povero pastore che v'immette la sua greggia (2). Ma tale consuetudine non è formale diritto, nè formale servitù di pascere, si una libertà, o una facoltà naturale, che gli animali dei cittadini possano pascolare nei territorii aperti. E come essa poggia sulla volontà dei proprietarii e sulla natura aperta dei fondi, cosi cessa semprecché i proprietarii, non volendo far più parte della comunione, chiudono i fondi con siepi, fossi, muri, o altrimente, o ne mutano la coltura (3).

(1) Id. Ibid. «Rovito. Pragm. I. de bestiis vaccinis. Ex diversa ratione inter unam et alteram animalium speciem militantem, cum vaccinae deserviunt ad necessarium usum agriculturae, ideoque multa privilegia ejis conceduntur, quae aliis animalibus non congruunt.
(2) De Rosa. Op. cit. Cap. X. Quae consuetudo naturali ratione summopere innititur, juxta protritum illud axioma: quod tibi non nocet, et alteri prodest, permittendum est: eo vel maxime, quod territoria campestria re ipsa sunt aperta ad pascua sumendum, secatis segetibus: atque adeo pecudibus nullo prorsus impedimento sunt.
(3) De Luca. De Servit. Disc. 37. Quao consuetudo non dicitur importare formale jus, seu formalem servitutem juris pascendi, sed solum libertatem, seu naturalem facultatem, ut animalia civium depasci possint in territorio aperto et campestri, a segetibus non impedito... Haec autem facultas competere dicitur ex natura campestri et aperta agrorum, tanquam ex cessante murorum, vel sepium, vel fovearum impedimento, et consequenter non tribuit jus civibus et incolis impediendi dominos, ne eorum bonis pro libito utantur, atque ad diersum usum convertant, juxta communiter receptam doctrinam.

L'uso civico invece, si avvicinava di molto alla servitù, e, come abbiamo veduto, avea tanto l'impronta del jus in re, che non poteva in nessun modo essere ristretto o proibito dal barone ai vassalli sul demanio feudale, né dall'Università al barone sul demanio comunale. In questa consuetudine universale, rinunziando all'uso sui fondi altrui, si potea chiudere i fondi proprii, e chiuderne per sino tanto, quanto era il rinunziato; nell'uso civico, la rinunzia non recava alcun pro.