CAPO VII. Le Prammatiche
SOMMARIO - Ampiezza dei diritti feudali in Germania o in Francia - La quale si cerca conseguire dai Baroni napoletani, mediante gli abusi o le usurpazioni - La triste condizione de' tempi li favorisce - Largheggiare di Alfonso I d'Aragona verso di loro - Violenze e difese - A cui Ferdinando I oppone la prammatica de Salario - Morto Ferdinando il regno è di nuovo in iscompiglio - Le prammatiche 14. e 16. de Baronibus - La prammatica 11. - Svolgimento della massima, quod omnes respicit, omnibus probandum est - Generale inosservanza delle leggi - Come le Università solessero eleggere dei procuratori per le liti mosse contro i baroni.
Tant'è: la logica è inesorabile come il destino. Poste certe premesse, seguono certe conseguenze, e ogni opposizione torna vana, perchè l'idea non può essere distrutta da nessun fatto umano.
Concepiti i jura civitatis, come derivanti dal diritto di natura, assoluti, inviolabili, imprescrittibili, e allo stesso modo gli usi civici, seguiva, che il potere baronale sui feudi fosse assai limitato: limitato tanto, quanto maggiore il diritto e il privilegio dei cittadini. E ciò non era di sicuro una bella cosa, quando e in Germania, e in Francia, il feudalesimo fioriva, e tutto era in mano dei baroni, terre, acque, strade, ponti, pesca , caccia, e persino gli uomini. I quali, se aveano usi sulle terre del feudo, li aveano non proprio jure, ma per concessione del signore, che potea privarneli quando gli piacesse, e si ristringevano solo a taluni più urgenti bisogni della vita. D'ordinario si concedevano con retribuzione, e se senza, gli era per aver numerosa popolazione, che pagando i mille diritti signorili a cui era soggetta, la gratuita concessione tornava del pari a vantaggio del concedente. Insomma li, non usi civici che spettassero ai cittadini jure gentium, non condomini del feudo, non demanii feudali, niente; i baroni, piccoli re, erano padroni di tutto e di tutti.
Che doveano sentire i baroni nostri verso di quelli, se non invidia e voglia di eguagliarli e nel nome e nel fatto? Figurarsi quindi, che dovessero fare allora, se oggi, con la coscienza pubblica mutata, e con l'onnipotenza della libera stampa, noi vediamo il dovizioso e violento, nelle campagne, dov'è una popolazione di contadini avvezzi, per tradizione famigliare, e interessati o forzati a riguardarsi quasi come sudditi del padrone, far degli uomini e delle cose loro quel che meglio a lui aggrada.
Il dire, che come coloro che potevano si dessero a usurpare per forza quel che legalmente non avrebbero ottenuto; che usassero minacce, proibizioni coi vassalli timidi e paurosi, che talvolta si acquietavano, inganni, raggiri con gli altri, non usando del demanio universale , e pretendendo pero la rinunzia all'uso del demanio feudale; il dire tutto ciò è poco, massime se si consideri, che la forza, la quale se non è tutto, è sempre molto quaggiù, si esplica con maggiore o minore facilità, ed ha, più o meno, carattere di violenza, secondo le diverse condizioni storiche dei tempi. E i tempi allora favorivano gli abusi.
Quel periodo di storia, che va dalla morte di Roberto ad Alfonso I d'Aragona, è per noi fatale, perché periodo di anarchia e di scempio. Dissolutezze, vanità, discordie, impotenti ambizioni, guerre; sino a che morto re Ladislao il già deserto e desolato reame di Napoli precipita nel fondo di ogni bassezza. Dacché Giovanna II, che gli successe, rotta a tutte le turpitudini, abbandonò il regno ai suoi drudi, che furono tanti, quanti i venturieri che le capitarono fra mano; e quando logora d'animo e di corpo, morì, non trovandosi chi tosto con mano ferma afferrasse il governo, il regno rimase in balia delle fazioni, mentre tre pretendenti se ne disputavano il possesso: Renato di Angiò, per diritto testamentario; Alfonso d'Aragona, per diritto di duplice adozione; Eugenio, per diritto feudale. La lotta nondimeno s'ingaggia tra Alfonso e parte Angioina. Ma dopo lungo e fiero combattere, la vittoria alla fine rimase al più valoroso, cioè ad Alfonso, che assiso sul contrastato trono, scacciò per sempre casa Angioina, e riunì sotto il suo scettro le due parti, sino allora divise, della grande monarchia del mezzogiorno. Se non che, avendo nell'impresa avuto bisogno di cattivarsi l'animo dei baroni, riuscito li gratificò, largheggiando con loro di privilegi, e a scapito delle prerogative reali, concesse loro anche quello che non mai avrebbe dovuto, cioè il mero e il misto imperio (1). Allora la superbia e la baldanza di quelli crebbero oltre ogni dire, e con esse le violenze e le usurpazioni.
E parte per le difese, parte per l'obbligo, che il medesimo Alfonso I mise agli Abruzzesi di menare i loro animali al pascolo di Puglia, gli usi civici, e specie l'uso di pascere, furono molto assottigliati. Però, morto Alfonso e succedutogli il figliuolo naturale Ferdinando, re ottimo per valore e per scienza, e tenace nel guardare le prerogative sue, e i diritti dei cittadini dopo di aver dato al regno la pace, pensò di riparare ai disordini e agli abusi, e il 14 dicembre del 1483 pubblicò una prammatica, divisa in più capi, registrata sotto il titolo de salario, con la quale diede diverse salutari provvidenze; ma quelle che fanno al proposito nostro sono la quarta e la nona.
(1) Che cosa fosse mero e misto impero non é ignoto né agli studiosi della storia antica, ne di quella dei mezzi tempi, nè ai giurisprudenti; a coloro soli dunque, che nol sapessero, diremo, che imperio mero era quella facoltà di dare ogni spezie di pena sino alla più atroce; che imperio misto era quella facoltà che non potea estendersi al di là di un lieve castigo; aveano questa facoltà i magistrati, l'altra i principi e le supreme autorità
Con la quarta ordinò, che fosse lecito a ognuno di liberamente pascere i suoi animali e abbeverarli nei pascoli e boschi del regno, siccome ab antico; rivocando le proibizioni di Re Alfonso, suo padre, il quale, per essere amantissimo della caccia, avea bandito questi luoghi; e n'eccettuó soltanto quelli, che erano destinati al suo real piacere, e alle sue proprie razze. Con la nona impose, che si abolissero tutte quelle difese e foreste, che i baroni e conti del regno aveano nuovamente stabilite nei loro feudi, benché vi fosse stata la sovrana concessione, dovendo solo rimanere le antiche. E ciò, perché i cittadini non fossero privi del libero uso che aveano dei terreni non difesi (1).
Cosi i jura civitatis et libertatis erano solennemente consacrati da quest'atto, che può dirsi la Magna Charta dei diritti dei cittadini, quali membri del Comune.
Nè restarono però i baroni; anzi, cupidi più che mai, cercarono ogni modo per soddisfare la loro cupidigia. E n'aveano ben d'onde. Se la natura del regno feudale è questa, che il re tenda ad acquistare il potere effettivo sopra tutti, ed i baroni tendano a conservarlo per se, e che però una continua lotta sia tra loro, figurarsi che dovesse succedere, quando il potere regio era mal fermo. Tanto questo era debole, altrettanto di libertà e di potenza acquistavano i baroni: libertà e potenza che erano servitù delle plebi.
(1) Item statuimus, quod hominibus Civitatum, Terrarum et locorum nostri Regni hujus cum eorum animalibus, vel sine, libere uti liceat pascuis, vel nemoribus, atque pascendi spicis, aquis, et aliis, prout hactenus antiquitus consueverunt... Et cum nec Comitibus nec aliis forestas, seu defensas absque nostra concessione instituere liceat, et quae instutae fuerint, dimitti praecipiantur: Statuimus similiter, et jubemus, quod defensae omnes, sive forestae, noviter institutae, quae scilicet, antiquitus non sint, ab omnibus, cujusvis conditionis, dignitatis, gradus, et praerogativae, prorsus, et omnino dimittantur. Ita ut liber sit in illis usus, quibus ante competebat; quoniam et si qua super illis constituendis a nobis concessio forte fuerit obtenta, eam tenore praesentium de nostra certa scientia, revocamus, viribus, et efficacia vacuvamus, cum nostrae intentionis non fuerit, neque sit, id concedere, quominus suo jure uterentur hi, quibus in illis jus ante competebat.
Morto Ferdinando I d'Aragona, il regno è di bel nuovo in guerre e in iscompiglio. Passano dieci anni di oppressioni e di affanni e di sconvolgimenti per le mutazioni di sette re, che in si breve tempo si succedono l'uno all'altro; sino a che quello viene a mano di Ferdinando il Cattolico. Tutti si spera, dalla sua prudenza, felicità e quiete. Indarno. V'ha molti baroni straricchiti dalle largizioni del primo Ferdinando; molti altri spogliati da costui per la nota congiura. Essi hanno favorito, favoriscono il re, debbono essere restituiti nel primitivo stato.
Come fare? Ripigliare le terre a chi le ha, sia anche a prezzo, e renderle. Di qui, scontenti gli uni che non vogliono rilasciare, scontenti gli altri che hanno meno di quel che loro spetterebbe. E come per solito avviene, che tra due litiganti il terzo ne va di mezzo; qui il terzo fu il popolo, cui i feudatarii si dettero a opprimere quanto poterono, col proibire la costruzione o l'esercizio di forni, molini, trappeti, etc. E che tali diritti proibitivi non sieno stati avanti di Ferdinando I, induce a credere ciò, che come questi, nella prammatica de Salario, abolì i diritti proibitivi delle osterie, valendo la stessa ragione, avrebbe aboliti anche gli altri. Gli antichi trattavano col jus comune simili questioni, non avendo mai considerato, come regalia, o prerogativa ciò che non era se non abuso. Carlo V nella prammatica 14^ De Baronibus confermò la legge di Ferdinando, estendendola a tutti gli altri diritti proibitivi. L'aggiunta da lui fatta della legittima prescrizione o della consuetudine legittimamente prescritta, non fu, che una espressione insignificante, perché in effetto nè l'una, nè l'altra potevano aver luogo. Se la prescrizione vuol giusto titolo e buona fede, dove manca o l'uno o l'altra, ella cade: e nei baroni mancavano entrambi.
Quanto alla consuetudine il d'Afflitto osservava, che l'atto di un solo, non induce consuetudine, poiché dal particolare non risulta mai il generale. Oltre di che, sarebbe fallito il fine della prammatica, di ritenere, cioè i vassalli nella loro libertà, e gli utili signori nei loro diritti. A non fare esorbitare dai quali era anche ordinata la prammatica 16^ dello stesso titolo, dichiarante di nessun peso la clausola cum angariis, perangariis, furnis etc. posta nella concessione; ella procedere di stile; e non doversi il privilegio intendere oltre la intenzione del concedente (1).
Siffatte due prammatiche il Guarani dicea universitatum pro pugnaculum, ac murus veluti aheneus adversus injurias per barones inferri solitas (2). E per vero, esse insieme alla prammatica de salario, riportata di sopra, sono come una specie di dichiarazione dei diritti dell'uomo, fatta due secoli prima, che questi diritti avessero bisogno di essere dichiarati.
Ma non meno importante è la prammatica 11^ del medesimo titolo, dove si proibisce ai baroni di far nuove difese, senza l'espresso consenso dei vassalli, e il regio assenso, e contro le fatte si comanda di provvedere sommariamente, e secondo giustizia (3). Gli usi che i cittadini hanno sui demanii, jure civitatis, uti singuli, sono incondizionati e imprescrittibili, e però veri diritti, di cui non possono essere spogliati da nessuno, senza il loro espresso consenso. Anzi perché ciascuno ha un proprio diritto sopra di essi beni, cosi vi bisogna il consenso di ciascuno.
(1) Declaramus, ut jura etiam volunt, et mandant, per talem clausulam, videlicet: cum angariis, perangaris, furnis, tapetis etc. Nostrae Regiae intentionis non fuisse, neque esse, novas inducere angarias, aut perangarias, nec novas defensas, aut jus prohibendi aliorum furnos, tapetos, molendina, aut alia in eadem clausula contenta, sed ea, et ea tantum, sub tali clausula, et concessione comprehendi, quae tempore dictorum Privilegiorum, et concessionum, autjusto titulo, aut legitima praescriptione erant in Civitatibus, Terris, Castris, et Casalibus, taliter, concessio acquisita per alios Barones, qui Civitates, Terras, Castra, et Casalia ipsa tenuerant taliter privilegia, et etiam concessiones nostras, et venditiones, et donationes, nostro cum assensu factas, et firmatas, faciendas etiam, et facienda declaramus.
( 2) Jus feud. neap. Tom. 3 .
(3) Mandamus, ut in terris cultis, sive incultis, aut nemoribus ipsarum Universitatum, aut communibus, Barones ipsi, aut alii utiles domini nullas defensas, seu clausuras facere possint, sine expresso consensu vassallorum, et vicinorum communionem forte, aut jus aliquod in territoriis, seu nemoribus ipsi habentium, et de licentia nostra, aut nostri generalis Viceregis, et si quae forte factae sunt, volumus per Officiales nostros summarie, partibus auditis, provvideri de justitia.
In ciò che spetta ai cittadini uti universi, come il patrimonio del comune, la maggioranza può fare quello che meglio le aggrada, perché non vi avendo nessuno un diritto personale e speciale, tocca a lei di provvedere nei modi più giovevoli all'intera comunità; ma in ciò, che spetta ai cittadini uti singuli, come appunto le pubbliche proprietà demaniali, a mutarne la destinazione, cogli affitti, vendite, colture, sia pure a tempo, è necessario il consenso di tutti, né la maggioranza può in alcuna cosa pregiudicare il diritto d'uso, proprio e singolare di ciascuno. E questo consenso è da prestarsi nel parlamento comunale (1), cioè nella generale assemblea di tutti i cittadini, non potendo valere il semplice consenso degli amministratori del comune, perché essi rappresentano quelli nelle cose d'interesse generale, ma non nei jura civitatis, che spettano a ognuno uti singulus. Anzi basta il rifiuto del consenso di un solo ad impedire insuperabilmente il mutare destinazione al demanio.
(1) I comizii municipali si convocavano dal Sindaco, o da chi ne esercitava il potere, o per mezzo di banditore, o mercè di pubblico avviso. Si teneano in luoghi pubblici e di ordinario nelle piazze delle università, ed in giorni di vacanza da lavoro, perché vi potessero intervenire le genti di campagna. Eran determinati i tempi in cui potevansi tenere (comitia stativa) tranne i casi di urgente necessità, in cui si convocavano straordinariamente (comitia indicta). Di queste assemblee, cui doveano esser presenti almeno due terzi dei cittadini, eran presidenti i Sindaci. Costoro proponeano gli affari, che vi si doveano discutere: vi assistevano ancora gli altri ufficiali del municipio: il capitano ossia il governatore, cui veniva affidata l'amministrazione della giustizia, vi aveva un luogo distinto, e v'interveniva nel solo fine di mantenervi l'ordine, antivenendo o sedando i tumulti e le sedizioni. Ciò ch'era consentito dalla maggioranza diceasi deliberazione ossia conclusione, che dal cancelliere trascriveasi in un libro particolare. Godeano del suffragio tutt'i cittadini maggiori di età, di sesso maschile, sani di mente, che poteano esprimere il loro voto, e che non l'aveano perduto o sospeso in conseguenza di qualche condanna. - Lomonaco - Loc. Cit.
Cosi la nostra giurisprudenza, sempre intenta a favorire i diritti dei cittadini, e ad assottigliare quelli dei baroni, ampliava ancor più il sentimento della predetta prammatica (1).
Di leggi, dunque, deputate a tutelare e garentire i jura civitatis, gli usi civici, non v'era difetto: ma erano esse rispettate ed eseguite? Sventuratamente siamo in un'epoca, che tra per il modo stesso onde era ordinata la società, e per la lontananza del potere supremo immediato dello Stato, e per altre speciali condizioni storiche, come i privilegi di alcune classi, e via, la forza legale non proteggeva in alcuna forma i diritti dei più deboli. La legge non ancora era stata allora paragonata alla tela di ragno, ma il fatto esisteva, come ha esistito, ed esisterà finché il mondo sarà mondo. Leggi e pene contro le violenze private, leggi dov'erano enumerati e particolareggiati i delitti con minuta prolissità, pene pazzamente esorbitanti (2), aumentabili ad arbitrio del legislatore stesso e di cento esecutori, diluviavano da per tutto, e nel regno napoletano, e fuori, specie negli altri dominii spagnuoli in Italia;
(1) Novario. Collectanea super pragm. Collect. 36. Pragmatica haec prohibet Baroness facere novas defensas... etiamsi con sentiret major pars vassallorum , nam hoc non obstante, neque Baro poterit facere id., quod hic prohibetur, requiritur, enim consensus vassallorum omnium, adeo quod uno dissentiente concessio ruit, cum jus pascendi, spicandi, et similium pertineat ad singulos Cives, et non ut universitatis, ita ut major pars sufficeret..., quod in his, quae singulos tangint omnium approbatio requiritur... Universitas dissentiente uno cive hoc non posset facere, nisi ex magna necessitate aeris alieni, ut se sub levaret, tunc enim Barones non ei liceret etiam aliquibus dissentientibus posse facere hic prohibita, etiamsi omnes electi Universitatis consentirent..., quod Decuriones Civitatis nihil possunt agere in praejudicialibus absque Consilio generali, nisi ageretur de negotiis parvi momenti. Etiamsi consentirent omnes vassalli, sed dissentirent clerici, quia ipsi gaudent omnibus privilegiis, et praerogativis uti alii cives, et conseguenter dum agitur de corum praejudicio requiritur ipsorum consensus.
(2) Basti il dire, che in Napoli il bacio a una donna nella pubblica strada era punito con la morte.
ma se negli uni con tutto ciò, anzi in gran parte a cagion di ciò, quelle leggi ripubblicate e rinforzate di governo in governo, non servivano ad altro, che ad attestare ampollosamente l'impotenza dei loro autori; o se producevano qualche effetto immediato, era principalmente d'aggiunger molte vessazioni a quelle che i pacifici e i deboli già soffrivano dai perturbatori, e d'accrescer le violenze e l'astuzia di questi (1); nell'altro, ossia nel regno napoletano, invece, pur avvenendo ciò per la sua parte, non avveniva con quella frequenza e intensità, né in tutto, e gli abusi di ogni sorta, e in particolare quelli relativi alla proprietà, che è il cardine della civil comunanza, erano frenati da un potere giudiziario bene organizzato, imparziale, inflessibile. Per ciò che tocca alle proprietà pubbliche delle università, e ai diritti dei cittadini sulle medesime, nei comizii municipali soleansi eleggere dei procuratori straordinarii, che si mandavano nella capitale in difesa dei comuni, per le incessanti gare, e pei ripetuti gravami contro le pretensioni della signoria baronale: lotte in cui d'ordinario i baroni n'aveano il peggio, non tanto perché la potestà centrale, trovando un ostacolo nell'oligarchia feudale s'adoperava a disfarsene per mezzo della borghesia; quanto perché dai filosofi e dai giureconsulti unanimemente si propugnava la causa dei comuni e dei terrazzani in nome della ragione e del progresso umanitario; come vedremo (2).
(1) Manzoni - Promessi Sposi.
(2) Dallo stabilimento della nostra Monarchia, e da Ruggiero ai Borboni, i nostri Sovrani han sempre minato sordamente il potere feudale divenuto ostacolo all'autorità monarchica, ma ciò non pertanto i Baroni non tralasciavano d'impadronirsi anche dell'erba e di tutti i prodotti del suolo dei feudi lor conceduti, e dei quali liberamente disponevano senza alcun riguardo ai diritti della Corona, e sotto gli Aragonesi le loro usurpazioni acquistato aveano il carattere di legittimità; ma malgrado ciô, il dogma del rispetto alla inamovibilità dei coloni fu conservato, e si ritenne sempre sacra la dottrina della inalienabilità degli usi civici ne' demanı del feudo - C. Marini – Analisi storico - filosofica di legislazione comparata