CAPO VIII. Le liti e il Foro
SOMMARIO – Non v'ha comune del regno di Napoli, che non abbia sostenuto liti coi baroni - Le loro difese erano assunte dai più valorosi avvocati - Napoli s'illustra pel foro, più che per eccelsi giureconsulti - Fine del Foro e della giurisprudenza - Ragione, onde Savigny la disse la città degli avvocati - Stima in cui costoro erano avuti - Allegazioni – Fortezza d'animo – Ciò nonostante i baroni non smisero mai di opprimere – Ma essi aveano ricevuto una ferita mortale dagli Aragonesi, onde non poterono mai più riaversi - Opprimendo, contraffacevano alla legge ed erano condannati - In questo, è il progresso civile del diritto napoletano.
Non v'ha comune di queste meridionali provincie, dove la carità di patria non sia venuta meno, e l'archivista non abbia creduto suo dovere di sgombrare le carte annerite dal tempo e rose dalle tignuole, il quale non conservi nel suo archivio dei volumacci tanto alti, con su ancora il segno e l'impressione viva parlante dell'uso che già ne fu fatto. Essi sono strumenti, transazioni, sentenze. Documenti delle lotte che i buoni e sventurati nostri padri ebbero a sostenere or con questo or con quell'altro lor signore. Correndo con l'occhio quelle carte, il cuore ti si accende di sdegno, e tu malediresti alla memoria di quegli sciagurati, che solo per aver forza ed una esagerata idea di se stessi, calpestavano ogni diritto, se non scorgessi contro di loro essere stata la giustizia. Sicuro; e come i cittadini avrebbero potuto muovere e sostenere liti contro la prepotenza, se non avessero avuto dalla loro il diritto? Le avrebbero mosse per esser poi vieppiù oppressi e tormentati? No; presso di noi, la libertà trovò sempre un asilo nel Foro.
Non vi ha esempio in qualsivoglia rivolgimento politico, che le, difese dell'oppresso contro l'oppressore non fossero prese e strenuamente sostenute (1). L'avvocheria in Napoli, costantemente rifulse per perizia grande nel diritto, per singolare eloquenza, per rara onestà, per tranquillo, ma indomabile coraggio in imprendere la difesa dei deboli contro i potenti, degli oppressi contro gli oppressori, anche se tali fossero stati il principe ed i suoi ministri; e per aver fomentato tutti i progressi intellettuali e civili del Regno, compresa la libertà politica e la civile (2). Di eccessivo zelo vi è forse stato notato qualcuno, ma di negligenza, di avidità, di perfidia, nessuno (3). Vera missione del foro e della giurisprudenza; la quale, come sapienza pratica del diritto, ars boni et aequi, mentre prepara la legislazione col tradurre nell'ordine della scienza gli elementi del bene e del giusto, che informano lo spirito della nazione (4), e la compie col dichiarare e svolgere la parola della legge, e con l'esplicare i principii ed i concetti involuti nella formola, è intesa a far penetrare le idee della giustizia in tutti i rapporti ed in tutti gli atti della vita civile. E la generale reputazione dei napoletani quanto al diritto, poggia anzi sul foro, che sovra di eccelsi scrittori. Noi, difatto, quasi non abbiamo che contrapporre, al meno per numero, ai grandi giuristi francesi e tedeschi. Abbiamo pochi sommi, come D'Alessandro, Freccia, D'Andrea, Gravina, Vico; e poi, intorno a questi, numerosi giurisperiti, che traducono in pratica le loro idee.
(1) Saverese.
(2) Cenni. Della mente e dell'animo di Roberto Savarese.
(3) Niccolini. Procedura Penale.
(4) Dig. Lex est commune praeceptum virorum prudentium consultum.
Il che risponde a capello alla natura dell'ingegno meridionale italiano, acconcissimo cioè alla speculazione, e tendente ad attuare le idee, che speculando abbia trovate vere; e alla massima, che alla speculazione è mestieri di pochi e sommi uomini, e a tradurre in pratica le idee speculate è mestieri di molti. Qui, la ragione dell'esser Napoli la città degli avvocati, secondo la dicea il Savigny, e del partecipare tutti alle cause agitate nel foro; dacché tal partecipazione non era la curiosità vana di sapere qual dei due litiganti avesse vinto, si era il desiderio, e forse il bisogno di conoscere che nuova idea di diritto avesse ottenuto di entrare nella pratica, per trarne poi le opportune conseguenze, nella vita civile della nazione, che si svolgeva ed ampliava appunto per opera degli avvocati. I quali erano i veri savii che reggevano le sorti del popolo, che li ricambiava d' altrettanto affetto e rispetto (1).
(1) Settembrini. Letterat. Ital. Vol. 3. I popoli che hanno forte personalità naturale hanno molti giuristi, perché questa personalità è la coscienza del proprio diritto individuale: e dov'è questa coscienza negli uomini, nascono frequenti contrasti, quindi la necessità di deffinirli risalendo a principii di ragione generale. Nella servitù l'uomo s'afferra al diritto, come al solo mezzo per esser libero e spiegare la sua personalità. Pero il tipo napoletano è il giureconsulto, l'uomo intelligente della legge, libero nella legge, che dalla legge sale alla più alta filosofia, che nella legge trova tutta la sapienza. Il giureconsulto magistrato era tra noi come una persona sacra, come una colonna dello stato, era circondato dal rispetto universale.
Ecco come ci descrive gli avvocati il d'Andrea, nel suo ms. avvertimenti a nipoti: «i primi signori del Regno curano di averli benevoli... trattano con loro con sommo rispetto... ne frequentano continuamente le case... insomma in tutte le cose li riconoscono come loro superiori, non che eguali; talmente che solo in Napoli pare che le voci patronus e cliens stieno nel loro vero significato, poiché da patronus è venuto il vocabolo padrone, e le clientele appo i Romani erano una specie di vassallaggio, come clientoli ne' nostri libri dei feudi vengono chiamati i vassalli».
E la loro stima crebbe col tempo e col merito; vale a dire, poiché la giurisprudenza, ripreso lo smarrito processo scientifico, e lasciato l'empirismo e le incertezze della casuistica, ebbe un criterio assoluto nel dettare le sue regole di civile sapienza; ed il Freccia nella scienza e il d’Andrea nella pratica ebbero preso a trattare il diritto nel suo svolgimento storico, e il Gravina ebbe coniugato a questo svolgimento, i principii della filosofia. Dacchè, fu allora, che a venire in fama di valoroso avvocato, bisognò sapere de omnibus rebus et de quibusdam aliis: di dritto romano, feudale, barbarico, canonico, di storia civile, politica, ecclesiastica, diplomatica, eccetera. Onde le loro allegazioni, frutto di lunghi e severi studii, sono egregi trattati di dritto, e monografie più che altro.
Sicché, cessata la causa per cui erano state scritte, rimaneano monumento di giureprudenza e filosofia civile. Oggi esse sono poco note, e ciò é a gran nostra vergogna; perché chi voglia fare davvero la nostra storia o civile o giuridica non ha migliori fonti a cui attingere. Se non fossero state scritte esclusivamente al progresso della vita stessa del popolo, ossia, se avessero avuto fine speculativo, piuttostochè pratico, come hanno, forse i nomi dei loro autori sarebbero più conosciuti (1), ma il progresso civile saria stato meno. Le astrattezze lasciamole da banda. Le astrattezze non ci avrebbero dato quegli esempi di virtù e di coraggio, che ci hanno dati questi consiglieri e tutori del popolo. Scipione Rovito nel difendere una causa innanzi al Collaterale presieduto dal Viceré Conte di Benavente, osò rinfacciare a costui, in pubblica udienza, di essersi lasciato corrompere dalla parte avversaria; cosi mise a rischio la vita, e patì la galera. E da uomini di siffatti studii e siffatto corattere uscivano i magistrati dei tribunali del Regno, che confermavano nelle sentenze, colla medesima fermezza, quelle dottrine che aveano sostenute nelle difese.
(1) Giova qui ricordare almeno i nomi di alcuni de' nostri avvocati e giureconsulti: il d'Andrea, l'Aulisio, Nicola Capasso, il d'Asti, l'Egizio, Niccolò Cirillo, Giambattista Capasso, Paolo Mattia Doria, Gaetano Argento, Nicolò Fraggianni, Francesco Rapolla, Nicolò Alfano, Giuseppe Pasquale Cirillo, Giuseppe Aurelio di Gennaro, e mille e mille altri.
Nessuno ignora il detto di Cujacio: Me terret authoritas Sacri Regii Consilii neapolitani; né la severissima rimostranza, che la Camera della Sommaria fece a Ferdinando I d'Aragona, quando egli, con tutto che fosse proibito, volle concedere al conte di Popoli la facoltà di esigere il pedaggio sulle vie pubbliche del feudo. Ella, commossa, exposuit regi peculiari libello, istud ab eo sine justa causa, absque animae suae periculo, concedi non potuisse. Cum non dicamur posse, quod sine peccato non possumus (1).
Sicché, stando così le cose, è da concludere, che i baroni non riuscissero mai a sopraffare i cittadini? Che siano false le parole del Barrio, dove descrivendo le Calabrie, dice: «questa regione ridonda anche di mostri, voglio dire di regoli e di tiranni, i quali la saccheggiano e la scorticano, ed a guisa dei lestrigoni campani si pascono giornalmente, per una sete inestinguibile e per una inesausta avarizia, de' travagli de' mortali; e si hanno usurpate le selve, le balze, le terre, i pascoli, i fiumi, la caccia, tutti insomma i diritti dei popoli»? Che siano false le parole d'uno dei più insigni nostri magistrati, il De Marinis, dove dice: «nel Regno i baroni sono tanti lupi rapaci, i quali non si occupano, se non del come possano scorticare i poveri sudditi»?
Adagio ai mali passi. Intendiamoci.
La cattiva signoria degli Angioini mise lo scontento e la ribellione nei popoli; onde per domarli fu giocoforza appoggiarsi ai baroni, che divennero potentissimi, per averne avuto in ricambio impunità di violenze, di usurpazioni municipali, di usurpazioni private, di usurpazioni regie. E quando Alfonso d'Aragona s'assise sul contrastato trono, trovò cosi scomposti gli ordini della monarchia napoletana, che, disperando di ricondurli nell'antico stato, dette opera a tener fermo quel che alla corona era rimasto, lasciando il resto; in questo modo, privilegi, abusi, usurpazioni, mutaronsi in diritto.
(1) D'Andrea.
E quantunque alla prudenza ed alla fermezza di lui vogliasi attribuire, se per tutto il tempo che ei stette al potere, le cose procedettero con tranquillità nell'interno, e la monarchia per tante vie indebolita seppe farsi rispettare e temere al di fuori, pure ciò non valse a compensare il male che veniva dalla mutazione, che egli, per assicurare la successione del reame al figliuolo Ferdinando, introdusse nell'ordine politico, concedendo indistintamente a tutti i feudatarii, come abbiam detto innanzi, il privilegio del mero e misto impero: privilegio di cui, come gelosissima prerogativa, la corona non erasi mai spogliata.
Ferdinando, suo successore, avea mente e cuore da tentare e mandare ad effetto le riforme necessarie, avea volontà risoluta di rialzare il popolo soverchiato dalle insolenze feudali; ed invero, quietate le turbazioni sorte al suo primo salire al trono, si dette a comporre gli ordini pubblici, a bandir leggi per frenare il potere incomportevole dei baroni, a sollevare il popolo dalla miseria e dall'abbiezione. Se non che gli stessi rimedi inaspirono le piaghe del regno, esacerbando l'animo di coloro i quali andavano a toccare: odio, desiderio ardente di vendetta respirarono i baroni, studiarono con assidua malignità le occasioni per sollevarsi. E si sollevarono; e se, dopo sanguinosa, ferocissima lotta di forza, d'inganni, di dissimulazione, i ribelli piegarono alle armi, non mutarono l'animo. I popoli piansero le miserie più che mai cresciute, tutto il reame fu sossopra, Ferdinando ed Alfonso d'Aragona furono segno d'abborrimento universale (1). Abborrire però si poteva i loro nomi, non distruggere i loro fatti, che nati per soddisfare a bisogni veri e sentiti, e interessando non questa o quella classe, ma tutto il popolo, aveano messo subito radici cosi profonde, da non temere di essere abbattuti. Basti ricordare l'istituzione del Sacro Regio Consiglio; la più grande opera di Alfonso, ossia, il tribunale degli appelli, di cui presidente era il re, consiglieri i più eletti giureconsulti del regno, il quale decideva in grado di appello tutte le cause (2); e la prammatica de salario, di Ferdinando, la quale chiara e precisa, com'era , troncava ogni mezzo termine.
(1) Moisé. Dominii Stranieri in Italia. Vol. 5.
(2) Capone. Discorso sulla storia delle leggi patrie - S. CXXIX. La più grande opera di Alfonso fu la creazione del Sacro Regio Consiglio... Amando di rendere giustizia ai suoi popoli direttamente, e non convenendo ad un re farlo, se non in grado supremo; pensò di raccogliere appresso di se tutti gli appelli del regno, e si cinse di un buon numero di eletti uomini, che il consigliassero nella decisione di queste cause. Così nacque il S. R. C., detto cosi dall'ufficio che prestava al Re, e detto anche il tribunale degli appelli, dal grado, in cui gli venivano gli affari. Donde fu che l'appellazione vicendevole data dalla Curia Vicaria del re a quella del Gran Giustiziere, e da quella del Gran Giustiziere alla Vicaria del re, rimase assorbita dal nuovo dicastero; e fece, che le due giurisdizioni, già simili per la materia, state fino allora i primi tribunali, si fossero in un sol capo confuse in una sola, che si chiamò la G. C. della Vicaria; distinta soltanto in due camere o ruote; cosi dette dalla forma circolare del banco, intorno a cui sedevano i giudici. Non solo da tutto il Regno chiamò Alfonso gli appelli al S. R. C. in forma di supplica indirizzata al re, ma dispose eziandio, che le cause degli altri suoi regni si potessero portare a quello per via di appellazione e di rimedio straordinario... E cessò anche l'incomodo, che il principe invocato per via straordinaria da questo regno o d'altronde, vi dovesse provvedere or sopra l'avviso di un magistrato, or di qualche privato giureconsulto. E non solo negozi privati vi si trattarono, ma anche pubblici, finché il re vi sedette. Ma in processo venne ristretto alle sole controversie private, e le domande vi si fecero sempre in suppliche indirizzate al re, e le sentenze uscivano in nome del re. Capo di tale adunanza fu il re; ma non potendo egli sempre intervenire vi bisognò un presidente, che fu sempre persona insigne o per natali, o per grado, o per dottrina... De' consiglieri i più erano giureconsulti; e questi cominciarono coll'esser nove; poi secondo i tempi talor decrebbero a 6, talora crebbero a 25, che fu il numero dell'ultimo tempo; e tutti o ad una ruota, o divisi quando in due, tre, e quattro. Questo Consiglio per essere risieduto lungamente in S. Chiara è detto il Consiglio di S Chiara e S. R. C.
Fu al senno, alla fortezza, tenacità di questi due re, il cui regno durò dal 1443 al 1494, che si dee lo stabilirsi di quella giurisprudenza pratica, che tanto valse ad indebolire la podestà baronale, ed a serbare integri i diritti dei cittadini. Laddove il potere legislativo ondeggia e si muta a ogni istante, sicché o la legislazione non nasce, o non diventa mai antica, ivi la giurisprudenza pratica non alligna, o è cosi scarsa ed oscura, che non appare. Ella ha bisogno di vedersi presente una legislazione ferma, tenuta immutabile, intorno alla quale possa aggirarsi, investigando e spiando, senza temere, che le manchi d'innanzi o si muti a capriccio; ha bisogno che si aggiunga a tale certezza ed autorità delle leggi una bastevole libertà nell'interpetrare, e una sufficiente guarentigia nell'esercizio dei privati diritti. Se l'una o l'altra cosa manca, il foro rimane povero e scarso. Insomma, è necessario che il popolo sia nello stesso tempo fortemente compreso dal concetto di legge e di giustizia civile, tenace e rispettoso delle sue tradizioni e dei suoi codici, e che si persuada poter sicuramente e profittevolmente invocare l'aiuto di quelli, ed esser chi voglia e possa imparzialmente interpetrare ed applicare quella ragione oscura e riverita (1). É vero, che da Ruggiero a venir giù, tutti, i Sovrani del regno di Napoli sempre minarono sordamente il potere feudale, divenuto ostacolo alla monarchia, ma coloro che gli misero le mani addosso proprio per finirlo, furono gli Aragonesi. Essi lo ferirono così mortalmente, che non poté mai più sollevarsi, perché non poté mai più distruggere quelle idee di giustizia che penetrate nella mente e nel cuore di tutti, formavano l'opinione comune, ed erano propugnate dai dottori, applicate dai magistrati.
(1) Manna. Della giurisprud. e del foro napol.
E se ciò non fosse stato, dove sarebbe giunta la loro prepotenza sotto il dominio degli Spagnuoli, quando messi al governo di queste provincie, viceré, uomini brutali, iniqui, avidi, avari, l'osservanza delle leggi, e tutto ciò che possa conferire alla pace, alla prosperità, e al generale benessere, venia posto da banda? Quando l'unico mandato di costoro sembrava esser quello di estorcere danaro alle misere popolazioni, e pur di ottenere il fine non guardavano a mezzo di sorta, tanto da vendere sino le terre del real demanio facendole da libere, serve? (1) Quando il governo esso stesso prepotente e in bisogno per la mala amministrazione, poggiava appunto sui nobili e sui privilegi? Di queste propizie condizioni i baroni fecero lor pro quanto poterono, e forza, sutterfugi, pretesti, tutto adoperarono per usurpare la libertà e i beni dei cittadini, diminuire le servitù che gravavano sui loro fondi per goderli liberi ed estendere l'industria della loro pastorizia, e la serie dei loro abusi è lunga e spaventevole (2); ma le leggi del regno hanno sempre resistito a questi tentativi, e la loro osservanza è stata sostenuta da tutti i tribunali.
(1) Queste vergognose vendite, dice il Botta, diedero occasione a tumulti e a disordini pericolosi; perocchè i comuni venduti, abborrendo dalla servitù, resistevano colle armi in mano ai mandatarii dei nuovi signori, che venivano a prender possesso, e gli mandavano colle bastonate».
Le città demaniali pagavono ingenti somme per non cadere in mano dei baroni, e come tali privilegi, conceduti, non eran poi mantenuti dal governo, cosi esse ottennero, che in caso di contravvenzione, fosse loro riconosciuto il diritto di resistere con le armi, uccidere i Commissarii Regi, implorare, quando bisognasse, l'aiuto dei Turchi; e sottrarsi dal vassallaggio del re senza nota di ribellione.
Nessuno ignora inoltre, come le gravezze di ogni genere, ed i soprusi commessi sotto il Viceregnato di Olivares, dessero occasione a quella famosa congiura, di cui fu parte Tommaso Campanella.
(2) Novario. Coll. sup. pragm. Coll. 36. Barones Proregum temporibus non solum e demanialibus feudi Vassalos penitus arcebant, nullo illis concesso pascendi jure, verum et demanialia Universitatis, aut sub colore feudalitatis, aut alio quovis praetextu, hinc etsi ex investitura titulum non habeant, jure
tamen praescripto retinere praetendunt.
Trascriviamo alcune delle abusive prestazioni solite ad esigersi dai baroni. Eccole: Baglive, plateatici, passi, portolanie, assise, terratici, decime, ghiandaggi, erbaggi, fide, dritto di portar la zappa, vigesima, vegliatoria, tredicesima delle vettovaglie, festatiche, strenne, terzerie, statonica, stallaggio, spicaggio, scannaggio, salmatica, mungitura, etc. etc. etc.
Ed è appunto in ciò che noi entriamo innanzi alle altre nazioni, che mentre in queste i baroni trovavano nelle stesse leggi consacrate le loro prerogative, e poteano però, con piena legalità, rendere, peggio che servi, i popoli; qui invece essi contraffaceano alla legge, che rafforzata dalla giurisprudenza, favoriva e tutelava al possibile i vassalli (1). E se della condizione di costoro i nostri giuristi si dolgono, egli accade, perché non guardavano alla triste, miserevole condizione degli stranieri. A cui negato ogni jus civitatis et libertatis, massime in Francia, non fu lecito di ottenere quel che noi si otteneva per l'opera inistancabile del foro, se non per una terribile e sanguinosa rivoluzione.
(1) I doveri dei baroni verso i loro vassalli erano designati nelle prammatiche comprese sotto il titolo, de Baronibus et eorum officio. Con esse era proibito ai baroni di impedire il libero commercio ai vassalli, di vendere l'uffizio di capitano, o altro ministro di giustizia, di poter tenere in carica i suoi officiali oltre l'anno ed esentarli dal sindacato, di poter tenere i condannati alla galera, nelle proprie galere; di potere esercitare il mero e misto impero oltre quanto fosse stato loro concesso, di poter fare e impedire matrimoni sotto pene arbitrarie, di far difese o foreste senza il consenso dei vassalli, di usare immoderatamente dei privilegi di cittadino e dei beni universali, di impedire ai vassalli la libertà dei forni, trappeti, mulini, taverne, di tener carceri sotto terra ed oscure, di commutare le pene stabilite con sentenze; di dar tortura ex processu informativo senza il regio assenso, d'immischiarsi nell'amministrazione delle università.
Le pene stabilite contro di loro in queste prammatiche, non derogavano alle altre pene imposte de jure communi, o per le costituzioni, o pei capitoli del regno