RIEPILOGO - CONCLUSIONE

Ed ora riassumiamo,

Il municipio romano, che fu il mezzo onde Roma potè divenire il caput mundi, e fu ogni città abitata da cives romani, ebbe una proprietà pubblica composta di seminati, colti, boschi, pascoli, monti, acque, e simili. Parte di questa proprietà, come, seminati, vigneti, pascoli, costituiva la rendita del popolo qual corpo morale, parte, come boschi, selve, monti, costituiva un semplice godimento, ma limitato ai soli cittadini

Venuto il cristianesimo, e caduto l'Impero, tutti furono non cittadini di Roma, ma del mondo, e però eguali ed aventi i medesimi diritti. Allora quella proprietà pubblica passò all'universitas incolarum, senza distinzione di sorta.

Cosi quei beni si nomarono bona communia e s'ebbe la prima idea del demanio comunale.

I barbari rispettarono tale proprietà, e non la tolsero mai ai vinti; anzi la riconobbero nelle loro leggi.

In queste meridionali province essa passò quasi intatta ai comuni. E perché i secoli avean mutato la condizione delle cose fu bisogno che i nostri giuristi, pur serbando il nome di bona publica, dato dai romani, facessero una esatta e precisa distinzione della prima specie di proprietà dalla seconda. Perciò l'una dissero patrimonium, l'altra domanium, voci diverse di origine e di significato. La prima è latina, ed indica una proprietà capace di essere in qualunque modo alienata, prescritta, modificata; la seconda è barbarica, ed indica, al contrario, una proprietà non capace né di alienazione, nè di prescrizione, né di modificazione alcuna.

Sul patrimonio, gli abitanti di un comune hanno diritto uti universi, non uti singuli, sul demanio uti singuli, non uti universi.

Questi sono jura civitatis: diritti inviolabili, imprescrittibili, come diritti di natura, primitivi, perché prima di essersi cittadini, si è uomini, e si ha quindi diritto al perfezionamento fisico e morale. Lo stesso Principe dee riconoscerli e rispettarli; che se egli ha alcuni diritti precipui, a nome regalie, li ha appunto per provvedere alla tutela ed al benessere dei popoli a lui soggetti.

Se quindi accade, che il re concedendo il feudo, vi comprenda i monti, i boschi, le selve, e tutti quei luoghi dove i cittadini vanno a soddisfare i loro primi bisogni, e sui quali han diritto uti singuli, la concessione deesi aver come non avvenuta. Il re non potea farla, non gli essendo dato di torre all'uomo i diritti insiti in lui.

Anzi, per la stessa ragione, se accada, che sul feudo sorgano villaggi, i quali perciò non possono aver luoghi propri, dove soddisfare lor bisogni, o vi sia di quelli che non ne abbiano abbastanza, dev'essere in essi riconosciuto il diritto di far legne, adacquare, abbeverare, seminare, e via. La concessione, per ampia che sia, devesi intendere sempre fatta con salvezza di questi diritti, e godimenti, o usi civici, che non sono una servitù, ma un peso inerente al feudo, e che se non vi fosse, non vi potrebbero essere né borgate, nė villaggi, perché non potrebbero vivere mancando delle cose più necessarie alla vita. Qualunque ostacolo o impedimento dev'essere quindi proibito.

E le prammatiche proibivano, ma non impedivano però, che i baroni, massime sotto il governo viceregale, avessero conculcati ed usurpati tutti i diritti dei popoli. Di qui, innumerevoli ed aspre cause, che eran difese strenuamente dai più chiari ed esperti avvocati, e decise favorevolmente dai tribunali, che cosi applicavano le leggi, e sostenevano la comune e sana dottrina dei nostri giureconsulti.

Abolita la feudalità, e fattisi innanzi principii economici e politici di maggiore ampiezza, gli usi civici dovean finire; ma formando parte del jus civitatis del cittadino, essi non poteano, senza compenso. Quindi furon divisi in tre classi, e a ciascuna di queste classi fu attribuito un certo compenso estensibile da uno ai tre quarti del demanio feudale, da quotizzarsi fra i cittadini, secondo determinate norme. 

L'operazione, come avviene di ogni cosa nuova, fu incominciata con grande ardore, e poi si è andata a poco a poco raffreddando. Di ciò noi non chiamiamo in colpa nessuno; anzi diciamo schiettamente essere stato per le difficoltà dell'operazione stessa e dei tempi.

Ora, però, non è lecito ritardarla davantaggio.

Quel Re che seppe dire, oggi non poter essere monarchia, se non democratica, saprà dare al povero la sua porzione di terra, che egli trasmetterà alla prole, cui renderà men dura la vita; saprà ligare con vincoli indissolubili il cittadino alla sua patria, che ne acquisterà di splendore prosperità floridezza, e non vedrà più emigrare i suoi figliuoli in lontane contrade; saprà far partecipi del maggior numero di beni e di prodotti il maggior numero di sudditi, secondo la intelligenza, il lavoro, il capitale di ciascuno; saprà distruggere, compiendo l'opera iniziata, quanto senta ancora di casta e di privilegio.

E cosi diamo fine al nostro discorso. Esso comprende solo le somme linee. Altri che non abbia moleste cure, e che abbia studii da ciò, riempisca queste linee, e potrà farci la storia di una delle più belle teorie del dritto napoletano, la teoria dei jura civitatis. Dessi, come la base della società e il fondamento di ogni civile progresso, egli ebbe sempre in pregio ed in onore. 

Chiara ed aperta testimonianza d'inoltrata civiltà.